Il festival orgiastico
Su una bancarella vicino alla stazione Termini, Roma, ho trovato una vecchia edizione di un libro di Silvio Pellico, Dei doveri degli uomini. Era sigillata in una busta di plastica trasparente che ne preservasse la carta, provata da settantanove anni di vita. La mia edizione è infatti del 1940, e naturalmente lo scritto è di molto più antico: Pellico lo stese nel 1834.
Questo libriccino, proprio il mio intendo, che ho ora fra le mani, è probabilmente stato regalato da qualcuno a qualcun altro, e probabilmente questo qualcun altro non se la passava granché bene. Del resto, se il libro è stato comprato in prossimità della sua stampa, eravamo in tempi di guerra e di regime fascista reso più inflessibile dalle urgenze marziali. Ho ipotizzato che si trattasse di un regalo perché all’interno c’è una dedica tracciata a stilografica: «Et secundis et adversis rebus fortis adpare». Traduzione: gli uomini forti si vedono nella sorte propizia e nella sorte avversa.
Ovvero, gli uomini migliori si riconoscono quando le cose gli vanno particolarmente storte o particolarmente dritte. Quanto a Silvio Pellico, era uscito di galera (Le mie prigioni, ricordate?) da quattro anni. Vi era rimasto un decennio, arrestato dagli austriaci nel 1820 per attività sovversiva: era l’alba del Risorgimento. Lo straordinario dei due libri – Le mie prigioni e Dei doveri degli uomini – è l’assenza di autocommiserazione, non c’è reclamo per ingiusta detenzione né lagna di umiliato sotto lo stivale del prepotente. Infiammò talmente gli animi che il cancelliere austriaco Von Metternich ammise un danno alla causa austriaca superiore a quello di una battaglia perduta.
Dei doveri degli uomini comincia così: «All’idea del dovere l’uomo non può sottrarsi; ei non può non sentire l’importanza di questa idea. Il dovere è attaccato inevitabilmente al nostro essere: ce n’avverte la coscienza fin da quando cominciamo ad aver uso di ragione». Ha un titolo che Giuseppe Mazzini riprese quasi testuale: Dei doveri dell’uomo, scritto nel 1860 a unità raggiunta. Per Mazzini, «colla teoria dei diritti possiamo insorgere e rovesciare gli ostacoli; ma non fondare forte e durevole (…) la Nazione». Per fondarla forte e durevole servono i doveri: «Io voglio parlarvi dei vostri doveri». Non prenderebbe molti voti, adesso, in anni di spasmodica richiesta di diritti. Andate a vedere la produzione libraria, sublimata dall’opera di Stefano Rodotà (Il diritto di avere diritti, fortunatamente ribaltato dal Dovere di avere doveri di Luciano Violante, quasi una stecca nel coro), da cui discendono i diritti dei bambini, i diritti dei giovani, il diritto alla sicurezza, alla dignità – potremmo andare avanti per pagine – fino al diritto di essere belli e di essere ignoranti.
Se ne sentiva il vento da decenni. Nel 1965 (un secolo dopo Mazzini), Ignazio Silone fece affondo sulla «rivendicazione continua e petulante di diritti» e sulla «meschinità di questi». Sarebbe quasi divertente vederlo tracollare nell’orgiastico festival dei diritti di oggi, ma tocca subito ricomporci davanti a Leone Ginzburg che, nel 1944, la notte prima di morire a Regina Coeli sotto le torture dei nazisti, lasciò l’ultima traccia di sé: «Le volte che io, per qualche ragione, ero assalito dalla paura, concentravo talmente tutte le mie facoltà a vincerla e a non venir meno al mio dovere, che non rimaneva nessun’altra forma di vitalità in me». Credo che adesso sia più chiaro a tutti voi, e a me, il senso di quella dedica: «Et secundis et adversis rebus fortis adpare».