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A piedi a Gerusalemme

Perché ci mettiamo in cammino, cosa cerchiamo? Cosa troviamo? In un racconto pieno di anima, dopo 1800 chilometri percorsi sui pellegrinaggio più importanti della storia qui Alessandra Filippi traccia il suo ultimo viaggio, verso la Città Santa
A piedi a Gerusalemme
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Le ragioni che spingono un numero crescente di persone a scegliere di mettersi in cammino sono tante e non per forza religiose. Spesso è il desiderio di mettersi alla prova; staccare la presa; misurarsi con i propri limiti per scoprire le proprie possibilità; talvolta è un dolore sordo che ti schiaccia a terra, al quale non riesci a dare né volto né forma; la perdita di una persona cara; una grave malattia. A volte nemmeno lo sai perché, ma senti che devi andare. Credo però esista un denominatore comune che unisce le infinite motivazioni che animano i pellegrini che ho incrociato: un’indicibile sete di vita.

La ragione che ha mosso me è stata la morte improvvisa e drammatica di mia madre. Quell’evento da una parte ha segnato l’inizio di tante tribolazioni, dall’altra una rinascita, conquistata a forza di chilometri lungo i principali pellegrinaggi della Cristianità. A distanza di due anni da quando si è aperto questo nuovo capitolo della mia vita, ancora una volta alla vigilia di Pasqua, ho accolto l’invito di Vanity Fair a condividerne una parte, quella più speciale.

Da allora ho percorso 1800 i chilometri in solitario, animata dal desiderio di trasformare la profonda crepa che si era aperta nel mio cuore e nella mia mente in una sorgente di luce, consapevole che per uscire viva dal grande imbroglio nel quale a mia insaputa ero finita, l’unica via che avevo era imparare a perdonare. Lasciare andare tutto, rispondere alle iniquità che avevo subito con un profondo gesto d’amore, l’antidoto migliore contro le tenebre che rischiavano di trasformare i miei pensieri e la mia vita in una interminabile notte.

Fra le distese di boschi della Galizia ho disegnato nella mia mente, ancora prima che sulla carta e sulle mappe, le traiettorie che avrebbero preso i miei passi e scoperto il valore della leggerezza, grazie alla quale ho compreso quanto ognuno di noi sia schiavo di una montagna di falsi bisogni e che la serenità è un’attitudine, si nutre di piccole gioie vissute, quasi mai possedute.

Così, dopo aver percorso l’ultimo tratto del Cammino Francese e la Via Romea, altrimenti detta via Francigena, dal passo del Gran San Bernardo fino a Roma, tracciando percorsi personali alla ricerca di quella originale, lungo le antiche consolari romane, all’inizio di dicembre dell’anno scorso, mentre in ogni angolo della terra si accendevano le luci, io ho spento le mie, preso lo zaino – 35 litri per 6 chili di peso- e da Malpensa ho volato su Tel Aviv, in Israele, per me come per molti Terra Santa.

Andare a piedi a Gerusalemme non è un’esperienza qualunque. Non assomiglia a nessuno dei cammini che i miei piedi hanno solcato. Non è Santiago, il re dei cammini, con le sue gioiose frecce gialle che t’impediscono di smarrirti, lungo il quale incontri il mondo, che ho associato alla figura del figlio e proprio per questo ho lasciato per ultimo, perché più di ogni altro mi appartiene. Non è la Francigena, impervia e ancora poco battuta ma tuttavia tracciata, lungo la quale tutto è familiare, anche la lingua, che nella mia immaginazione ho identificato con la madre.

Camminare verso Gerusalemme, la città celeste, sacra alle tre religioni monoteiste della terra, per me legato alla figura del padre, significa camminare sulle orme di Gesù; peregrinare in solitudine lungo una strada che attende ancora di essere definita; misurarsi col deserto, soprattutto interiore, affollato di sentimenti spesso in contrasto fra loro; attraversare un angolo di mondo dove la storia si è fatta pietra e il verbo carne.

Il mio viaggio è iniziato alle bianche mura di San Giovanni d’Acri, la «chiave della Palestina», raggiunta in treno dall’aeroporto. Dall’Italia, grazie all’amica Paola, ero entrata in contatto con un ragazzo israeliano che vive a pochi chilometri da Acri e con il quale, la sera stessa del mio arrivo, ho condiviso la tavola, piacevoli chiacchierate e una bella esplorazione della città vecchia le cui pietre, di notte, con la luce calda e tenue dei lampioni, si accendono di bagliori dorati che la fanno sembrare uscita da una favola.

Qui ho trascorso due giorni memorabili, visitando tutto quello potevo: dal Tunnel dei Templari, spettacolare e suggestiva costruzione crociata sotterranea che si può percorrere a piedi, alla Chiesa di San Giovanni Battista dalla quale, all’alba di due giorni dopo, sono partita; dalla Cittadella crociata, che conserva al suo interno un gigantesco refettorio del XII secolo, al Kahn dei Franchi, palazzo dove  risiedevano i rappresentanti dei commercianti stranieri fra XIV e XVIII secolo; dalla bella Moschea di El-Jazzar con un muezzin che alla fine del viaggio ho incoronato come il migliore, al museo che raccontata la vita quotidiana della Palestina attraverso una preziosa collezione di arredi, oggetti d’uso, ricostruzioni di botteghe artigiane. Con mia sorpresa ho scoperto persino l’esistenza di un monumento dedicato a Napoleone Bonaparte, realizzato in cima a una collina che porta il suo nome: lui stesso l’aveva fatta realizzare in tempi da record quando senza successo tentò di espugnare la città nel corso della Campagna d’Egitto.

Durante queste esplorazioni ho conosciuto persone dimostratesi preziose lungo il cammino: ebrei, cristiani ortodossi, melchiti, mussulmani, frati francescani che mi hanno permesso di scoprire usi, costumi, riti, tradizioni e partecipare a celebrazioni che altrimenti avrei ignorato, perdendo parte della ricchezza che una simile esperienza può regalarti.

A malincuore, il terzo giorno sono partita alla volta di Ibillin, una piccola città arabo-cristiana per raggiungere la quale ho attraversato qualche tratto non proprio pittoresco, tanto che non definirei questa tappa la più memorabile. In compenso la cittadina mi ha riservato due piacevoli sorprese: la conoscenza di Elias Chacour, arcivescovo melchita di Akko, fondatore del Mar Elias Educational Institutions, nella cui foresteria sono stata ospitata; e scoprire che questa è la città natale della prima santa palestinese, Suor Maria di Gesù Crocefisso, morta giovanissima nel Carmelo di Bethlemme, venerata ben oltre i confini della Terra Santa.

All’alba del quarto giorno ho ripreso il cammino verso Nazareth. La strada è stata dura, non tanto per i dislivelli – la Galilea è un dolce susseguirsi di colline verdeggianti – quanto per l’estrema difficoltà nell’individuare la via giusta. Tutto il percorso non è tracciato, dunque non sempre è facile orientarsi; inoltre, la possibilità di incontrare qualcuno, oltre a sparuti gruppi di pecore e mucche, è nulla. La salita per conquistare l’area archeologica di Sepporis, una delle città più importanti e ricche dell’antichità, dove nacque anche Sant’Anna, madre di Maria, meta obbligata per chiunque passi da queste parti, è stata durissima ma sono stata ripagata dallo spettacolo che mi attendeva in cima alla collina. Un complesso di rovine sontuose che coprono un arco temporale che va da Erode ai crociati e che include, fra gli incredibili mosaici, quello di una villa romana, nel quale è incastonato il celebre ritratto della «Monna Lisa di Galilea». Solo questo varrebbe la visita.

Ripresa la strada, sono arrivata a Nazareth, la città di Gesù, conquistata a fatica perché alle spalle avevo ormai 28 km, gli ultimi dei quali tutti in ripida salita. Ero preparata al peggio, in molti me l’avevano descritta brutta e deludente, compresa la chiesa della Natività, progettata da Giovanni Muzio. Le cose non stanno proprio così: la parte nuova, sorta a partire dal 1957, incombe e non è una meraviglia, ma quella antica ha fascino da vendere. La chiesa di Muzio poi è straordinaria, sia da un punto di vista architettonico, sia per l’atmosfera e l’indescrivibile carica di spiritualità che si respira al suo interno. Ingloba una parte di quella che la tradizione ha identificato come la casa di Maria – l’altra si trova nel Santuario di Loreto, in Italia -, incastonata nel Santuario, meta di pellegrinaggio di cattolici e ortodossi di ogni parte del mondo. È in questa chiesa che ho vissuto uno dei momenti più toccanti e indimenticabili del mio cammino, quando il frate francescano che mi stava confessando mi ha esortata a sanare la memoria. Grazie alle sue parole ho sciolto un nodo che avevo in gola e pianto calde lacrime liberatorie.
Nel convento di clausura nel quale sono stata accolta, ho pregato e consumato in silenzio la mia cena, scrivendo i miei diari alla luce di una piccola lampada, fino a quando i miei occhi me l’hanno permesso.

La mattina successiva l’ho dedicata all’esplorazione del centro storico e del vecchio suk arabo; mi sono persa fra vicoli, piazzette e palazzi che mi ricordavano Venezia e Instabul. Per ultima ho lasciato la «Chiesa Sinagoga»: tradizione vuole sia stata il luogo dove Gesù pronunciò la profezia di Isaia, prefigurazione della sua vita pubblica, che scatenò lo sdegno dei presenti i quali lo cacciarono fuori dalla città, fin sul ciglio di un monte dal quale invano tentarono di scaraventarlo di sotto.

Dal «Monte del precipizio» – che dubito sia quello giusto per tutta una serie di ragionevoli motivi, non ultimo la distanza che lo separa dalla Sinagoga – dopo aver ho ammirato la Jezreel Valley e inquadrato per la prima volta il Monte Tabor ho ripreso il cammino.

Piuttosto breve e di facile individuazione – il Tabor è come un faro, si erge solitario nel bel mezzo di una piana e non puoi mancarlo -, questa tappa è stata eroica dal punto di vista fisico. La salita è durissima e non finisce mai, servono gambe e cuore per affrontarla e molta, molta acqua. Quando però varchi la Porta del Vento – qui soffia sempre e in modo impetuoso – ti lasci alle spalle ogni fatica e entri in un’altra dimensione: ai tuoi piedi, a 360° lo sguardo si perde su tutta la Galilea. Dalla Basilica della Trasfigurazione, dove ho assistito a una gioiosa messa cantata in francese, ho ammirato un tramonto infuocato di rara intensità, seguito poche ore dopo da un diluvio universale durato tutta la notte.
Per mia fortuna qui, come a Nazareth, avevo una stufa nella stanza – il riscaldamento in molti luoghi è un optional non contemplato – e la cena e la colazione che mi hanno offerto i ragazzi di Mondo X, che gestiscono il convento della Custodia di Terra Santa, sono state ottime e abbondanti. Nel più puro spirito dell’accoglienza non hanno voluto nulla in cambio: per loro i pellegrini che camminano a piedi e da soli sono sacri. Sono stati gli unici a riservarmi questo trattamento. Nessuno prima di loro lo aveva mai fatto.

La mattina del sesto giorno mi sono svegliata avvolta da una nebbia fitta; gli scrosci avevano lasciato posto a una pioggia nebulizzata, per certi versi ancora più insidiosa. Non vedevo a un palmo e avrei dato tutto pur di restare al caldo e all’asciutto. Purtroppo un nutrito gruppo di pellegrini era in arrivo e dunque, che mi piacesse o no, dovevo andare.
Avvolta nella mia mantella rossa, che mi faceva sembrare una via di mezzo fra Cappuccetto rosso e il Gobbo di Notre-Dame, ho percorso una decina di chilometri prima di arrendermi all’evidenza dei fatti e accettare l’idea che a Tiberide sarebbe stato più saggio arrivare con l’autobus, rinunciando così a passare dai Corni di Hattin, dove il vanaglorioso Guido di Lusignano perse contro le armate di Saladino, segnando la fine del regno crociato.

Nella più grande città del Mar di Galilea ho «piantato le tende» per cinque giorni, vuoi perché la pioggia ha insistito a scendere per altre 48 ore, vuoi perché il luogo è talmente incantevole che andarsene senza goderne i benefici sarebbe stato come accettare un invito a cena e restare a digiuno. La sosta si è rivelata strategica perché qui ho fatto altri incontri importanti che hanno dato una svolta comunitaria al mio cammino; il più significativo è stato ancora una volta con un frate francescano al quale sarò per sempre debitrice, poiché ha trasformato in realtà un sogno che credevo quasi irrealizzabile: partecipare alla messa di mezzanotte nella chiesa della Natività a Betlemme. Ancora oggi lo considero un piccolo miracolo.

Attorno al lago di Tiberiade, dove si è svolto il cuore del magistero di Gesù, ho vissuto esperienze intense, visto luoghi che avevo solo immaginato attraverso i brani del Vangelo, che ho riletto, passo dopo passo, salendo il Monte delle Beatitudini, seduta in riva al lago a Cafarnao e Tabgda, immaginando Pietro che, sconsolato, all’esortazione di Gesù di riprendere il largo e rigettare le reti gli risponde: «Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla; ma sulla tua parola getterò le reti».

Nel giorno di Shabbat, grazie a un ragazzo americano di origini israeliane incontrato sul far del tramonto a Cafarnao, per mia fortuna non osservante, sono riuscita a tornare a casa risparmiandomi una camminata nel cuore della notte non proprio piacevole.

In sua compagnia, il giorno seguente, sono andata a visitare l’imponente Castello di Belvoir, una fortezza medioevale dalla quale si domina tutta la valle del Giordano, costruita dall’ordine cavalleresco degli Ospitalieri a partire dal 1168 e nei pressi del quale l’armata cristiana di Baldovino IV di Gerusalemme, il re lebbroso, pochi anni prima della disfatta di Hattin, sconfisse quella musulmana guidata da Saladino. Dotata di un formidabile sistema di cisterne che permisero ai crociati di resistere a un assedio durato quattro anni, presenta un impianto concentrico considerato fra i primi di questo genere, assunto come modello per quelli costruiti nei secoli successivi.

Da lì, sempre in macchina, ci siamo spinti fino al sito archeologico di Beith She’an, quasi al confine con la Cisgiordania, menzionata fin dal XV secolo a.C. e citata nella Bibbia come città cananita nel Libro di Giosuè. Una meraviglia fra le cui pietre, mosaici, colonnati, gradinate del teatro ci siamo letteralmente persi e beati fino al crepuscolo.
Sulla via del ritorno, quando ormai era l’ora di cena, abbiamo fatto un’ottima tappa gastronomica al Rutemberg Restaurant, ospitato in un edificio un tempo destinato alla quarantena degli animali che ancora oggi mi chiedo come abbiamo fatto a trovare.

Inutile dire che Tiberiade mi è rimasta nel cuore. L’ospitalità gioiosa di padre Giacomo, le cui messe cantate, celebrate nella chiesa dedicata a San Pietro che porta incisa la data A.D. 1100, hanno rallegrato e scandito le mie giornate; il porticato sotto il quale nei giorni piovosi ho scritto, letto e contemplato il lago. I tramonti dagli orizzonti larghi. E tutti gli incredibili incontri fatti, dei quali sono grata perché mi hanno aiutata a comprendere che quel che conta è fare un pezzo di strada insieme, a prescindere dalle provenienze e origini di ciascuno; a evitare la paura del diverso, delle contaminazioni, perché quando non riconosciamo più l’altro che è in noi, perdendo la consapevolezza che l’io è plurimo, cangiante e incoerente, perdiamo prima di tutto noi stessi.

Da Tiberiade ho raggiunto Gerusalemme, attraversando la Cisgiordania: una terra arsa e bellissima, piena di contraddizioni e, mi duole dirlo, iniquità che non fanno onore a chi le esercita. Seguendo il mio istinto, ho rinunciato ad attraversarla a piedi da sola e ho preso l’autobus, sperando arrivi un giorno l’occasione per percorrerla in compagnia di qualcuno con il quale condividere strada e direzioni.

A Gerusalemme sono rimasta otto giorni. Avevo in mente di andare a visitare tutto quello che sarei stata in grado di raggiungere, forse persino Eilat, e dedicare gli ultimi due giorni a Tel Aviv. Invece alla fine mi ha stregata e non sono più andata da nessuna parte. Sono rimasta ancorata alle sue pietre, alla sua energia, alla spiritualità che trasuda da ogni interstizio; alle sue mura, ai suoi tramonti, ai muezzin che accanto al Santo Sepolcro scandivano le mie ore.

La mattina del 24 dicembre, a piedi, ho raggiunto Betlemme, scontrandomi per la prima volta col muro, di fronte al quale ho provato un dolore misto a sconcerto. Noi esseri umani siamo animali davvero strani. Malgrado quel che spesso professiamo, per una oscura ragione ci ostiniamo a fare agli altri quel che non vorremmo fosse fatto a noi.

Di fronte a quel muro ho rivisto tutti quelli invisibili che stiamo costruendo oggi, con i mattoni dei fondamentalismi, del razzismo, delle mille fobie che nutriamo per le contaminazioni e tutto quello che definiamo estraneo, o per meglio dire, straniero. Ho ricordato quello di cui feci ampia esperienza a Berlino, poco più che ventenne. Io li ricordo i VoPos, i soldati della Deutsche Volkspolizei della Germania dell’Est, che dalle torrette di cemento del muro controllavano come falchi, pronti a sparare, che nessuno si avvicinasse. Il prossimo 9 novembre ricorrerà il trentesimo anniversario della sua caduta, mentre l’Europa è agitata da crescenti ondate separatiste.

A tutto questo pensavo mentre con pazienza subivo i controlli, superati i quali, ancora una volta per caso, mi sono ritrovata nel bel mezzo della processione diretta alla Basilica della Natività, dove ho partecipato all’apertura solenne delle celebrazioni natalizie. Qui, molte ore dopo, ho assistito alla Messa di Mezzanotte, celebrata dall’Arcivescovo Pierbattista Pizzaballa, Amministratore Apostolico del Patriarcato Latino di Gerusalemme, che ho avuto il privilegio d’incontrare, qualche giorno dopo, in occasione di un’udienza privata che resterà fra i ricordi più luminosi di tutto il mio pellegrinaggio.

Dentro il Santo Sepolcro, un labirinto enigmatico di pietre, altari, cappelle, scale, sovrapposizioni architettoniche abbarbicate fin sui tetti, regno della comunità cristiana degli Etiopi, sono rimasta tutta una notte, a pregare sulla tomba di Gesù; a pensare con gratitudine a tutto quello che avevo vissuto, scoperto, compreso; alla memoria da sanare, osservando la brulicante vita che si svolge al suo interno, quando le porte vengono serrate e le fedeli ortodosse iniziano il lento e paziente rito della lucidatura delle lanterne e del rimbocco dell’olio. Assistere alla chiusura del portale è un’esperienza da fare almeno una volta nella vita: è scandita da un rituale preciso che si ripete ogni giorno, mattina e sera, dove ogni gesto ha un peso e rappresenta una conquista, sancita dallo Status Quo, un decreto reale ottomano emanato nel 1852 che regola i diritti di proprietà e accesso delle comunità cristiane qui, come a Nazareth e Betlemme.

Lungo la scalinata che porta alla cappella armena e poi giù, fino alla cattolica cappella dell’Invenzione della Santa Croce, ho sfiorato con lo sguardo e con le dite le migliaia di croci incise dai pellegrini che nei secoli sono sfilati fra le mura di questa chiesa, la cui prima pietra è stata posata da Elena, la madre di Costantino il Grande, alla quale dobbiamo la scoperta del sepolcro di Gesù e della Vera Croce.

Per due volte ho fatto la fila per vedere e rivedere la Spianata delle Moschee, passando davanti al Muro Occidentale, il più sacro all’ebraismo, immaginando il Tempio, il Palazzo Reale, le guerre, le distruzioni, gli uomini che per il possesso di queste pietre si sono battuti e sono morti. Solo adesso che l’ho vista, Gerusalemme, comprendo perché sia ancora oggi la città più contesa e bramata della terra.

Sono tornata a casa alla vigilia di Capodanno, festeggiato in volo, come il Piccolo Principe. Nei mesi seguenti ho compreso quanto i miei passi mi avessero portata ben più lontano delle distanze geografiche che avevo percorso. Lungo la strada qualcuno mi ha seguita alla distanza su Instagram; qualcun altro mi ha chiesto di portarlo con me la prossima volta. Un’artigiana di viaggi di Torino, fondatrice di Raggiungere, qualche settimana fa mi ha proposto di tradurre la mia passione per i viaggi e il mio cammino in percorsi inediti costruiti sulla base dei miei passi. Ho accolto il suo invito e insieme, come due sarte, stiamo imbastendo questo nuovo capitolo di storia.

All’inizio del 2020 contiamo di far partire il nostro primo itinerario in Israele, sospeso fra arte e spiritualità. Mentre per il prossimo ottobre abbiamo in cantiere un viaggio a Parigi, sulle orme di Napoleone: un lungo week end nel corso del quale ripercorrere la sua vita attraverso luoghi legati alla sua memoria.

Se qualcuno mi avesse detto, anni fa, che un giorno mi sarei trovata a condividere con altri il mio desiderio di scoperta e conoscenza, facendone un lavoro, avrei risposto che era un pazzo, che in mente avevo altri progetti per il futuro. Anche questo è uno dei piccoli miracoli del cammino, che in verità inizia quando torni a casa e credi di esserti fermato.
La vita non sai mai cosa ti riservi. L’importante è restare in ascolto, saper accogliere quel che arriva. E credere, facendo parlare il non credente che in te, lasciando quindi sempre un piccolo spazio al dubbio, a quell’inquietudine bella che ti permette, come dice Sant’Agostino, di cercare la verità e di “non smettere di cercarla dopo averla trovata”.

 

PER ANDARCI

La Guida: Paolo Giulietti, A piedi a Gerusalemme, Edizioni Terre di Mezzo

Dove ho sostato:

Akko: Akko Hostel
Ibillin: Guest House Mar Elias – meeioffice@gmail.com
Nazareth: Monasterio Santa Clara – clarissasnazareth@outlook.com
Monte Tabor: Mondo X – Custodia di Terra Santa – mondoxmontetabor@gmail.com
Tiberiade: Casa Nova Tiberias – casanova@koinoniagb.org
Gerusalemme: Maison d’Abraham – resa.mda@secours-catholique.org
Casa Nova Jerusalem – casanovaj@custodia.org
Betlemme: Casanova – fphbeth@palnet.com

Le tappe:
Akko
Ibillin
Nazareth
Monte Tabor
Tiberiade
Tabga,
Migdal
Monte delle Beatitudini
Cafarnao
Castello di Belvoir
Beit She’an
Gerusalemme
Betlemme

Cosa mettere nello zaino:
Prima di tutto assicuratevi che il vostro zaino abbia le cinghie in vita per scaricare il peso, altrimenti vi distrugge le spalle. Ricordate che non deve mai pesare più del 10% del vostro peso. In un percorso come questo non dovrebbe comunque superare i 6/8kg.
Indossate pantaloni/pantaloncini, maglietta, pile o felpa, giacca a vento (leggera ma impermeabile, meglio se con pile staccabile) e rigorosamente scarponcini/scarpe da trekking già collaudati. Le scarpe nuove potrebbero rovinarvi la vita!
I luoghi dove dormire sono molti, variano dai monasteri agli ostelli, dagli alberghi alle foresterie. Tutti quelli dove sono stata forniscono le lenzuola e asciugamani, dunque non è necessario portare il sacco a pelo.
Nello zaino, oltre a quello che avrete addosso, mettete:

  • Maglietta, calzini e mutande di ricambio (1 al massimo)
  • 1 paio di calzettoni per camminare (oltre a quello che avete già ai piedi)
  • Un pantalone/pantaloncino e un pile di ricambio
  • Cappello (per sole o pioggia)
  • Tuta per dormire, oppure maglietta e braghette
  • Occorrente per lavarsi (boccette piccole e ben chiuse!)
  • Crema solare protettiva
  • Un asciugamano in microfibra
  • Fazzoletti, salviette umidificate, amuchina
  • Scarpe di ricambio per la sera e infradito per la doccia
  • Eventuali medicine (quelle che vi servono, alle quali aggiungerete un antinfiammatorio, cerotti per vesciche, ago, filo e disinfettante, indispensabili per sgonfiarle)
  • Poncho per la pioggia (se andate d’inverno)
  • Due borracce (l’acqua non si trova lungo il cammino e rimanere senza è la cosa peggiore che possa capitare)
  • Sapone per lavare i panni (boccetta piccola e ben chiusa o pezzo di sapone di Marsiglia)
  • Sacchetto di tela per i panni sporchi
  • Macchina fotografica
  • Quaderno di appunti
  • Libro da leggere o ebook con caricatore (o eventuale batteria supplementare, il GPS può sempre tornare utile)

Percorsi alternativi:
Jesus Trail (link caldo)
Il sentiero di Israele
Gospel Trail
Nativity Trail
Jerusalem Trail

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