Storia di Mitzi Peirone, regista italiana (di 26 anni) negli Stati Uniti
È giovane, bella e il suo primo film come autrice e regista, Braid, un thriller psicologico con tratti horror, è stato selezionato al Tribeca Film Festival 2018. È la storia di qualche regista americana, direte voi. E invece no: si tratta dell’italianissima Mitzi Peirone che da quando ha 19 anni vive e lavora tuttavia negli Stati Uniti.
Lì, dove i dati anagrafici non sono un discrimine, a 26 anni è riuscita a debuttare nel mondo cinematografico con questa prima pellicola che è rimasta nelle sale statunitensi per alcune settimane (sarà inoltre presentata al prossimo FIPILI Horror Festival di Livorno, in programma dal 23 al 28 aprile 2019). E pensare che prima di Braid, Mitzi Peirone aveva messo mano, dopo gli studi di recitazione e di scrittura di sceneggiature, ad appena un paio di cortometraggi di moda.
I suoi primi passi nel mondo della cinematografia non sono stati propriamente incoraggianti. Poco dopo essere arrivata negli Stati Uniti, fa la modella e recita in alcuni cortometraggi. Ma quasi subito intuisce che il ruolo dell’attrice non fa per lei: «Mi sono presto stufata dell’aspetto passivo della recitazione» ci racconta. «Sul set mi ritrovavo a dire a tutti cosa fare. Volevo cambiare il copione, i costumi, la regia».
Tuttavia per vedere il paradiso della regia, ha dovuto affrontare una fase di purgatorio con tanto di avance non gradite. «Prima di Braid, avevo trovato la sceneggiatura per un cortometraggio che mi piaceva un sacco. Avrei dovuto interpretare il ruolo principale. Dopo un anno e mezzo ho trovato una casa di produzione disposta a trasformarlo in un lungometraggio. Così ho iniziato io stessa a scrivere e a produrre il film. Ma dopo due anni di lavoro il regista ci ha provato con me, io non ci sono stata e mi ha licenziata».
Una battuta di arresto violenta, amplificata da qualche disavventura burocratica. «Nel frattempo la mia agenzia di moda aveva perso il mio visto. Non potevo quindi tornare in Italia, non avevo un lavoro ed ero senza documenti. Tecnicamente ero un’immigrata irregolare. Mi sono sentita completamente sconfitta».
Come spesso avviene nelle migliori favole, un momento drammatico si è trasformato in un’occasione per rinascere. E anche per dimostrare che il sogno per il quale aveva lasciato la propria città, Torino, famiglia e amici, poteva ancora realizzarsi. «Proprio in quel periodo ho iniziato a scrivere la sceneggiatura di Braid. L’orrore nel film deriva da una fonte psicologica. Non ci sono fantasmi, né demoni, per intenderci. Riproduce piuttosto un mondo in cui il confine tra realtà e fantasia non è chiaro. Potrebbe ricordare anche la percezione di persone con patologie mentali, come la schizofrenia. Uno dei miei incubi peggiori è proprio il non riuscire a distinguere più ciò che è vero da ciò che è immaginario».
In Braid le protagoniste sono due ragazze che si trovano in difficoltà (soprattutto economica) a New York; decidono così di derubare un’amica di infanzia, una ricca ereditiera con problemi psicologici. Qui si confrontano con le psicosi dell’amica e con le proprie, immergendosi in «un mondo fatto di ricordi, sogni e allucinazioni. Ma Braid è nato anche come un’opera filosofica. Ci sono legami con il mito della caverna di Platone; con Shakespeare, secondo cui siamo tutti attori su un palco; con il cielo di carta di Pirandello. Quando mi sono ritrovata senza niente ho attraversato un momento esistenziale e mi sono chiesta quanto della società in cui viviamo sia una finzione».
Già perché secondo Mitzi Peirone la follia è molto più quotidiana di quello che siamo soliti pensare. «I nostri sogni e le nostre speranze sono delle microfollie. Tutta questa facciata ci aiuta a vivere, ma resta comunque in parte una finzione».
Braid invita così a pensare anche alla salute mentale e alle patologie che la possono mettere in crisi. «In Italia si preferisce non parlarne, quasi non esistessero. In America invece c’è un abuso di psicofarmaci e un grosso problema di dipendenza dagli oppiodi. Alcune dipendenze iniziano da prescrizioni eccessive dei dottori».
E, continuando il paragone fra le due nazioni fra cui si è divisa la sua vita, confessa che le piacerebbe molto girare un film in Italia. Ma per quanto riguarda il suo esordio, non pensa che in Italia avrebbe avuto le stesse opportunità. «Ero una donna di 26 anni senza grandi esperienze quando ho girato Braid; ciononostante qui non mi sono mai sentita messa in dubbio. Non sono certa sarebbe avvenuto lo stesso in Italia».
In anteprima ci racconta di essere al lavoro su un film e una serie televisiva fantascientifici. «Il film tratta di un futuro non troppo lontano in cui i telefoni sono diventati impianti inseriti nel retro della testa. Possono addirittura connettersi al sistema nervoso cambiando perfino le emozioni». Ritorna così il tema delle malattie mentali; perché se è vero che la depressione origina (anche) da una mancanza di serotonina, una simile tecnologia potrebbe regolarne la quantità in circolo nell’organismo. «Ma in questo futuro semiutopico, le persone perdono la propria individualità e la propria libertà».
Nella gallery trovate qualche curiosità in più su Braid, compreso l’innovativo modo utilizzato per finanziare le riprese.