Violenza minorile, la noia che si trasforma in criminalità: un fenomeno che fa paura
«Baby gang a Milano, nove minori arrestati». «Como, rapina ed estorsioni: sgominata baby gang, coinvolti anche minori di 14 anni». «Massa, sedicenne picchiato era sciato in fin di vita in un parco: arrestati tre ragazzi». «Napoli, baby gang aggredisce anziano con disturbi psichici e lo butta in un cassonetto». «Gruppo di minorenni danneggia gravemente alcune carrozze di un treno regionale Ventimiglia- Torino». Spaccano treni, seviziano homeless, sono sempre più piccoli, sempre più aggressivi, spesso armati e, probabilmente sempre più inconsapevolmente violenti. Picchiano, aggrediscono e feriscono senza un motivo, ma solo per il gusto di farlo. L’escalation di violenza tra giovanissimi è diventata ormai notizia sui giornali quasi ogni giorno, ultima quella di un gruppo di 14 ragazzini, dodici minorenni e due maggiorenni, indagati per i reati di omicidio preterintenzionale, stalking, lesioni personali, rapina, violazione di domicilio e danneggiamento nei confronti di un pensionato, Antonio Stano, di Manduria, comune in provincia di Taranto, morto martedì scorso a distanza di 18 giorni dal suo ricovero nell’ospedale cittadino, dopo essere stato sottoposto a due interventi chirurgici.
Violenti per gioco, per noia? I giovani, secondo gli inquirenti, durante gli assalti si sarebbero ripresi con i telefonini mentre sottoponevano la vittima a violenze con calci, pugni e persino bastoni, per poi diffondere i video nelle chat di Whatsapp. Uno di loro, che non ha nemmeno 17 anni e un pelo di barba in faccia, racconta, come se tutto fosse normale, che «mica volevamo ucciderlo, era solo per ridere che facevamo girare quei video» e ora che l’uomo con cui credevano solo di scherzare, però, è morto, loro si dicono increduli. Aggressioni, rapine, danneggiamenti, botte che Stano subiva, secondo tante testimonianze, addirittura da anni se, come ha scritto sulla sua bacheca Facebook un educatore del vicino oratorio, dopo la morte del 66enne: «Personalmente ho ripreso tante volte i ragazzi che bullizzavano il signore, ho chiamato le forze dell’ordine e chiamando i genitori, ma senza risultati».
Chissà cosa passa nelle mente di questi adolescenti quando, senza quasi pensarci, superano il limite trasformando la noia (forse la solitudine?) in violenza. Ragazzini di genitori che li aspettano a casa, in contesti familiari «normali», come spesso vengono descritti, che frequentano la scuola e quando si trovano davanti agli inquirenti si trasformano in agnellini, chiedendo scusa e pentendosi di quello che hanno fatto.
Nessuno può negare che si tratti di reati che vanno perseguiti, anche se compiuti da minori, i quali vanno fermati e resi responsabili delle azioni che hanno commesso e poi, naturalmente, avviare dei percorsi educativi per evitare recidive. Perché sono tante, troppe, le storie di questi «piccoli» criminali che sfruttano la forza intimidatoria nel branco, quasi mai agendo da soli, perché è il «gruppo» che li sostiene, che li incita, è il gruppo a cui poter finalmente dimostrare quanto possono essere feroci. Ma la responsabilità di crescere minori nel rispetto degli altri, è altrettanto della società civile e di ciascuno per il ruolo che gli spetta, dalla famiglia alla scuola, fino alle istituzioni, investendo sulla prevenzione e non sulla repressione.
Ogni epoca ha il suo capro espiatorio colpevole di traviare le menti dei giovani: ci sono stati, e ci sono ancora, i videogiochi che rendono i ragazzi violenti, ora sono i social network. E, dall’ovvia considerazione che su un ragazzo con già un disagio interiore e relazionale, tutto questo abbia un’influenza ancor più negativa, la vera domanda dovrebbe essere cosa manca a questi ragazzi per trovare solo nella violenza un modo di trascorrere il tempo libero. Di cosa hanno bisogno? Non hanno più curiosità? Non hanno stimoli diversi? Perché se fosse così, è chiaro che tutto questo rappresenterebbe un terreno decisamente fertile per far attecchire le differenti forme di violenza e criminalità. Sulla strada trovano la loro identità nel “gruppo”, crescono rinforzandosi gli uni con gli altri, senza nessuno che li riporti indietro quando il “gruppo” non è quello giusto.
Certo, forse sarebbe il caso anche di abbassare i toni, magari smettendo di utilizzare parole come «baby gang». Quando si tratta di giovani e giovanissimi è necessaria un grande attenzione da parte di tutti. Forse dovremo chiederci di più quale esempio forniamo a questi ragazzi noi adulti, visto che la violenza non è solo nei gesti. Forse potremmo fare tutti un passo indietro e tornare ad ascoltare i nostri figli. Don Bosco diceva che in ogni ragazzo, anche il più discolo, c’è un punto di bene su cui far leva. Il problema è quando non c’è nessuno che su quella leva abbia voglia e tempo di agire.