Atlantico Tour 2019: Marco Mengoni torna sul palco. E lo fa in grande
Il palco, nella tappa torinese che ha riconsegnato Marco Mengoni al calore dei live, è arrivato solo con la seconda canzone, Voglio. Prima, è stato il buio: un gioco di luci, un telo bianco a coprire i coristi e la loro danza tribale, la voce di Muhammad Alì. «I’ma gonna show you how great I am». Marco Mengoni, in completo bianco, l’ha aperto così l’Atlantico Tour: solo, su un palco non illuminato, attorno un po’ di nebbia. Ha cantato Muhammad Alì, e l’entusiasmo è stato tale che al Pala Alpitour di Torino i seggiolini si sono mossi dolcemente, cullati dalla voce di Mengoni, dal ritmo che hanno impresso loro i fan battendo i piedi a terra. Poi, il telone bianco è caduto e dietro il cantante si è svelato l’insieme dei musicisti. Soprattutto, si è svelato il palco, cosa viva e creatura pulsante.
Sulle prime, è stato essenziale, scarno e senza luci. Ma, con il progredire dello show, si è trasformato, facendosi amico e compagno della musica di Mengoni. Un cantante atipico, senza manie di protagonismo, che, in un omaggio sincero all’universo creato negli anni, ha saputo fare un passo indietro. A parlare, sabato sera, sono stati i brani e l’emotività che si portano appresso. Sono state le immagini, i video, i colori scelti per enfatizzare ciascun sentimento.
La città, con il suo urbanismo monocromatico e il suo carico di malinconia, ha dato forma alla prima parte del tour, ad Un giorno qualunque e Dove si vola, mashata con la Someone like you di Adele. Poi, sulle note di Pronto a correre, la scena è cambiata. Tre pod sono calati dall’alto e led immensi si sono accesi. Il ritmo è cresciuto e il coro del brano ha preso la forma di una dichiarazione d’intenti. «Solo, controvento, ricomincerò», ha cantato Mengoni.
Quando la musica si è spenta, sul palco, ha fatto capolino un cartone animato, con tanto di personaggi e voce narrante. È stato un intermezzo. Lo spettacolo è stato rotto da un filmato-con-monologo, utile a traghettare lo spettatore alla seconda parte della serata. A parlare, invisibile all’occhio, è stato Mengoni. «Carpe diem», è sembrato dire alle migliaia di fan ai suoi piedi, con i nasi all’insù rivolti allo schermo. «Siete i vostri rimpianti, la somma dei vostri errori e delle vostre esperienze», ha detto. Poi, di nuovo, è tornata la musica.
Il secondo blocco dello show ha preso l’avvio da La ragione del mondo e, sul palco, sono arrivati i colori. Prima l’arancione, poi, con Buona vita, il verde della natura: i boccioli che diventano fiori e il bruco che si fa farfalla, le zebre placide in mezzo alla savana e il traffico veloce della metropoli. Lo schermo si è oscurato solo quando la voce è esplosa, su Proteggiti da me e su quella gelosia urlata ad un palazzetto adorante. È stato un attimo, poi è tornato il viola, il viso di Frida Khalo pitturato con i colori del Messico. È stata La casa Azul, l’era della luce che ha sfiorato il culmine con Amalia e un palco che è mutato fino ad assumere la forma di un quartiere popolare portoghese. «Sudate», ha urlato Mengoni, chiedendo ai fan di ballare sui ritmi latini e su quelli tribali. «Questa parte, arriva tardi perché tardi ho imparato a lasciarmi andare a liberarmi dai miei patemi d’animo», avrebbe spiegato poi, a margine del concerto. Ma il pubblico non avrebbe sentito, trascinato via dai balconi e dalle case colorate che a fine canzone sono sfumate in un altro monologo, il più importante.
«Siamo stati più belli di così, più onesti, più buoni. Siamo stati più umani di così», ha ricordato Mengoni, mentre il grande schermo alle sue spalle ha lasciato correre i titoloni della stampa internazionale, specchio di un’era viziata in cui si è «sempre in contatto, ma sempre più soli», dove «si annega nelle proprie paure, ma con il sorriso sul volto». Dove l’altro è il nemico e i social media hanno rotto ogni magia. «Be pitiful, for every man is fighting a hard battle», ha detto il cantante, invitando i propri fan a spegnere i telefonini. «Siate sempre gentili, perché ogni uomo sta combattendo una battaglia di cui non sapete nulla». Il pensiero, mutuato da Ian McLaren, ha accompagnato il pubblico alla terza e ultima parte della serata. Guerriero l’ha introdotta, e, sullo schermo, si sono affastellati video virali, di reciproco aiuto e solidarietà.
Il palco, pian piano, è tornato a farsi semplice. Le luci hanno soppiantato i colori, lo schermo si è spento e Mengoni ha chiuso la serata con i bis, L’essenziale e poi Hola. «Nell’Atlantico Tour, ho portato tutti gli ascolti che ho fatto per confezionare questo album: la musica latina, i ritmi tribali, il soul perché, come tutti, io vengo dall’Africa e dall’Africa sento il richiamo», ha detto lui che alla creazione del live ha partecipato in prima persona, conferendogli una forza altrimenti impensabile. Nella misura, e dunque nella consapevolezza, è stata la bellezza dell’Atlantico Tour, nel suo equilibrio. Mengoni ha lasciato che parlasse l’arte. La ricerca di uno spettacolo pirotecnico non ha cannibalizzato la musica e la musica non si è risolta in una stasi egoriferita.
Tutto si è bilanciato, in un sottile gioco di equilibri utile (anche) a ricordare come su un palco, gentilmente, possa fare capolino la politica, il simbolo di un impegno civile. Come un cantante possa dare una piccola scossa allo spettatore che, senza bandiere né proclami, gli ricordi di «essere umano». Mengoni, ai live, è tornato con il botto. E, nel farlo, ha restituito l’immagine del ragazzo che è stato, semplice e buono. «Voglio vivere il mondo nel mondo: andare al bar e aiutare chi posso», ha detto il cantante, vagheggiando di una signora in Twizzy, presa dentro da un’Alfa rossa. «Ho testimoniato», ha ribadito, con il candore di un sognatore vero. Di quelli che, ad occhi chiusi, con il microfono rivolto alla platea e le braccia larghe ancora si permettono di cantare per sé, spettatori di un successo che desta sempre meraviglia.