E se non dessi lo smartphone al tuo bambino?
Se i genitori proibissero al figlio o alla figlia di frequentare gli amici, partecipare alle feste o giocare insieme di fronte a una console fino a 15 anni come li definiremmo? Fuori dal tempo, oltre modo restrittivi, carcerieri o aguzzini perfino. Bene. Dunque facciamoci una domanda: perché mai ponendo una soglia così alta anche al possesso – l’uso è un’altra storia, e inizia dai primissimi mesi di vita sui dispositivi dei genitori – di uno smartphone, dovremmo definire in modo diverso quelle mamme e quei papà?
In fondo, attraverso gli ecosistemi digitali i ragazzini – e poi gli adolescenti – fanno esattamente le stesse cose: frequentano gli amici sui social e in chat, partecipano alle feste che si dipanano nelle Storie di Instagram e negli incroci su Snapchat o Tik Tok, giocano in multiplayer a Fortnite. In una parola, costruiscono un pezzo della loro identità, forse il pezzo preponderante. Fra l’altro, dai 14 anni in su sono perfino punibili penalmente. Sarebbe davvero curioso se potessero essere spediti in una comunità rieducativa da un giudice per aver commesso un qualche reato ma no, il profilo su Tik Tok non potessero proprio aprirlo.
Il dibattito, mai sopito perché l’educazione tecnosentimentale è uno dei grandi buchi neri della contemporaneità genitoriale (nel senso che i giovani genitori ne sono a loro volta vittime e carnefici), è tornato a decollare con le dichiarazioni di Madonna. La popstar ha spiegato infatti che i suoi quattro figli adottivi – ma si è concentrata in particolare sul 13enne baby calciatore David Banda – non avranno lo smartphone fino al compimento dei 15 anni. La lezione arriva da passato: secondo la cantante, appena tornata col nuovo album «Madame X», il rapporto con gli altri due figli (Lourdes detta Lola, 22 anni, nata dalla relazione con il personal trainer Carlos Leon, e Rocco John, 18 anni, figlio del regista inglese Guy Ritchie) sarebbero peggiorate fino a interrompersi proprio a causa dell’onnipresente propaggine tecnologica. Quindi, basta errori: niente telefono fino al culmine dell’adolescenza perché rovina i rapporti in famiglia.
Scarsa comunicazione e concentrazione o peggio depressione, rischio di suicidio, autolesionismo, cyberbullismo. Quali che siano le (spesso deboli, scientificamente parlando) ragioni di fondo, Louise Veronica Ciccone non è certo la prima né l’ultima celebrità a individuare nello strumento – e non negli ambienti a cui dà accesso – la ragione di ogni male giovanile. Perfino i più ammirati guru della tecnologia si sono mangiati le mani e, in passato, ne hanno proibito l’uso alla prole. La lista è lunga e comprende perfino il compianto Steve Jobs, che lo smartphone l’ha inventato e che ha fatto faticare non poco Reed, nato nel 1991, Erin Siena nata nel 1995 ed Eve nel 1998 avuti da Laurene Powell (Lisa, la figlia avuta nel 1978 da Lisa-Nicole Brennan, era già grande all’epoca dell’iPhone). Così come Bill Gates, che con la moglie Melinda ha imposto regole ferree per i figli Jennifer, oggi 22enne, Rory, 19, e Phoebe, 16: non hanno avuto un dispositivo prima dei 14 anni, anche dopo schermi spenti prima della nanna e comunque mai a tavola.
Negli ultimi anni, fra capziosi pentimenti e lacrime di tecnococcodrillo, si è poi perso il conto di ex super manager che hanno messo anima e cuore nello sviluppo delle più diverse piattaforme che oggi orchestrano la nostra vita e che, in una conversione sulla strada dell’eremitismo, lanciano allarmi catastrofisti puntualmente ripresi nei contenitori televisivi del pomeriggio da psicologi che non vedono l’ora di accompagnare le paure, invece che individuare le soluzioni.
Indimenticabile l’urlo di disperazione di Shawn Parker, 40enne fondatore di Napster e primissimo presidente di Facebook, che un paio di anni fa, dando il calcio d’inizio a questa catena di pentimenti col conto in banca strapieno e a ritmo di stock option miliardarie, disse: «Solo Dio sa cosa sta facendo Facebook al cervello dei nostri figli». Eppure, tanto per dire l’ultima in ordine di tempo, un recentissimo studio ha spiegato come no, i social media non abbiano distrutto una generazione. L’indagine, frutto di un team internazionale capitanato da Oxford, e pubblicata su «Pnas», spiega come «l’uso dei social media non sia, di per se stesso, un forte indicatore della soddisfazione esistenziale fra gli adolescenti. Al contrario, gli effetti sono sfumati, nella peggiore delle ipotesi contenuti, bilanciati nel tempo, specifici sul genere e legati alla metodologia d’analisi».
Tanto rumore per nulla, dunque? Non proprio. Anzitutto, bisognerebbe separare le questioni: un conto è il dispositivo, un altro l’accesso alle piattaforme digitali. La familiarità con un tablet, magari attraverso una serie di applicazioni creative sotto il controllo dei genitori (ce ne sono un’infinità), può essere un’attività bella e ludica anche a 3 o 5 anni. Al contrario, l’obbligo di ipnotizzarsi di fronte ai display mentre mamma e papà cenano al ristorante, o la continua disponibilità di uno smartphone a ogni accenno di capriccio (per non parlare delle console), è il patto col diavolo che renderà impossibile un passo come quello di Madonna. Semplicemente perché i primi ad abusare – su quel fronte, senza contare lo «sharenting» e le loro stesse abitudini – saranno stati proprio i genitori.
Le piattaforme digitali, invece, avrebbero già delle regole chiare a cui allinearsi: se non sono espressamente pensate per i più piccoli, con una serie di garanzie sulla raccolta dei dati, sono vietate ai minori di 14 anni. Lo dice il decreto che ha recepito il Regolamento europeo per la protezione dei dati personali, entrato in vigore l’anno scorso. Ma è un divieto fasullo, che nessun sito può e vuole far rispettare. Col risultato che i social network, a seconda delle mode del momento, sono pieni di bambini e Tik Tok, l’app cinese dei karaoke muti, si è perfino beccata una multa dalla Federal Trade Commission statunitense per averne trattato i dati senza consenso. Poca roba, tutto come prima.
Com’è evidente, i problemi non si risolvono «mettendo via quel cellulare». Anzi, lo smartphone è spesso un guscio vuoto senza gli ambienti digitali a cui concede di accedere e attraverso i quali i ragazzi costruiscono le loro vite. Osservateli, nei gruppi per strada, ma fatelo con empatia e attenzione, senza paura: non c’è una realtà digitale che ha sostituito quella reale, quella narrazione è fallace, stereotipi buoni per il terrorismo che si abbevera dalla cronaca, vedi i casi di Manduria o Vallerano. Semmai, i due piani si sono sovrapposti, certo non senza turbolenze: la scena tipica è un gruppetto di ragazzi che, mentre parla o si confronta, sta mandando in play un video o una clip da qualche app e la guarda più o meno insieme, commentandola e al contempo reagendo a mille altri stimoli, social o notifiche. Cioè intrecciando i due livelli esistenziali, ormai indistinguibili.
I problemi, questa la chiave, si risolvono sporcandosi le mani. Spostandosi (non scendendo, nessuno sta sopra o sotto) al loro livello, ma inquadrandolo con gli strumenti che qualche anno di vita dovrebbe (ma non è detto) averci dato. Si comprendono, anzitutto, usando quegli ambienti, conoscendoli, installandoli, giocandoci, tenendo testa ai continui aggiornamenti e ai ricatti della dopamina che ci esalta a ogni like. In una parola, facendo lo sforzo di condividere una grammatica comune. E guadagnando così autorevolezza su un piano in cui la figura genitoriale semplicemente non esiste. Uno sforzo che a volte, lo capiamo, può somigliare a un lavoro. E infatti è il lavoro più duro del mondo: quello di genitore e, più in generale, di educatore.