Generazione Z / Experience Is intervista Venerus
«Se dovessi spiegare la tua musica a qualcuno che non la conosce, cosa gli diresti?». «Gli direi di ascoltarla». Se c’è una domanda che Venerus detesta è quella che cerca di incastrarlo in un genere musicale. Io glielo domando lo stesso, come prima cosa. D’altronde gli ho appena fatto compilare una carta d’identità musicale per la quale già mi ha guardato storto un paio di volte, e so già che questa intervista sarà una prova di forza, perché io sono qui a fare domande mentre Andrea vorrebbe che a parlare fosse la sua musica, e che il suo mondo fosse più intuito che spiegato, senza bisogno di aggiungere di più a quello che le melodie, i testi e le immagini, la sua estetica e i suoi video evocano. Non è resistenza al dialogo, è fedeltà artistica. E l’arte non si spiega, si sente e basta.
La tua estetica è molto forte ed è anche in continua evoluzione: ogni volta che ti vedo hai qualcosa di diverso…
«È vero, ma tieni conto che va di pari passo con la musica, solo che lì è meno evidente perché il timbro della voce tiene insieme tutto. Per me comunque tutto fa parte del processo di comunicazione del mio mondo, che cerco di trasmettere in ogni dettaglio, sia visivamente che all’ascolto».
Per questo i tuoi live sono quasi teatrali.
«Sì, quello che mi piace è creare una dimensione intima anche quando c’è un contesto ampio, come i festival. È sempre bello portare un momento intimo, calmo, avvolgente che coinvolge chi ti sta guardando e ascoltando».
Qualche giorno fa è uscita la seconda parte del tuo mediometraggio, il video che accompagna Love Anthem, il tuo secondo EP. Invece che fare diversi video per le varie canzoni hai scelto di fare un unicuum che dura 30 minuti, che sembra un quasi un collage di tanti spezzoni video che avevi messo da parte e che poi avete riunito in un lavoro unico.
«E invece abbiamo girato tutto negli ultimi tre mesi, con un’idea originale di partenza a cui non siamo stati nemmeno fedelissimi fino alla fine. Abbiamo voluto fare qualcosa di più di un semplice videoclip, qualcosa di più interessante ma anche allo stesso tempo di più intimo, di più personale. Di fatto è un tentativo di aprire una porta sul mio mondo, anche senza spiegarlo del tutto. Anzi senza spiegarlo affatto, dato che tanto di quello che è venuto fuori è il risultato anche del rapporto stretto che ho con chi l’ha realizzato insieme a me, che è il mio migliore amico».
https://www.youtube.com/watch?v=l6QshZ-Wu8I
È quasi un lavoro surrealista, insomma sembra proprio che ti piaccia lasciarci lì a cercare di capire cosa volevi dirci senza mai dirci niente.
«Un po’ sì dai. Ma non è una provocazione, è che secondo me le spiegazioni vanificano un po’ il lavoro, che invece è il risultato di tante intuizioni che si concretizzano nella musica e nella visione che offriamo. Alcune sono più chiare, altre meno. Nel video il diavolo rappresenta le mie angosce, le mie ossessioni che cerco di mettere in gabbia nel tentativo di proteggere me stesso e gli altri. Ma che finisce per andare a fuoco per l’attrito. È una metafora, ma per riuscire ad afferrarla è necessario ascoltare i vari dischi e farsi un’idea pian piano, senza la pretesa di capire tutto e subito».
Mi ricorda un po’ i documentari degli artisti degli anni Cinquanta, girati in pellicola nei loro atélier. C’è qualche artista che vedi come un riferimento?
«Mi viene in mente sicuramente Cocteau, che è uno dei pochi a non avere una dimensione unica: è stato drammaturgo, sceneggiatore, attore, disegnatore…Non che io voglia necessariamente fare tutte queste cose, ma mi piace avere un immaginario aperto, libero da etichette».
Per questo ti dà così fastidio che ti chiedano che genere fai?
«Sì perché la gente tende sempre a etichettare un po’ le cose, ma nel 2019 con tutti gli stimoli che ci sono, le possibilità di ascoltare cose anche molto diverse tra loro, a che ti serve infilarti in una definizione? E che importanza ha che qualcosa ce l’abbia per potertici riconoscere e perché ti piaccia?».
Sei tornato a vivere a Milano da nemmeno un anno dopo aver vissuto a Roma e a Londra, dove hai iniziato il tuo percorso musicale in inglese. Eppure la presenza della città nel video è molto forte, sebbene sia riconoscibile solo a chi ci vive perché non racconti il centro, racconti la periferia.
«Sono nato a Milano e questa città, ma soprattutto il mio quartiere, San Siro, è l’unico posto dove sento un sentimento di appartenenza vero. Gli spazi dove cresci sono gli spazi che ti rimangono e raccontare le periferie urbane permette di trovare una poetica anche in quei luoghi che apparentemente non ce l’hanno perché sembrerebbero troppo grandi e sovraffollati, quasi poco umani».
Da cosa parti per scrivere una canzone, dalla musica o dal testo?
«Da quando scrivo in italiano generalmente dalla musica perché poi mi concentro tantissimo sul testo, che per me è molto importante. Ci tengo che abbiano una certa forma, che quello che dico abbia un senso e che non sia solo un insieme di parole legate dalla melodia».
Tornerai a scrivere in inglese?
«Penso di no, almeno non in un futuro prossimo. Ma mi piacerebbe che il mio profilo diventasse quello di un artista internazionale indipendentemente dalla lingua, anche perché secondo me l’inglese non è più necessario come lo era un tempo. A parte che adesso se guardi le classifiche ti rendi conto che lo spagnolo lo sta soppiantando, e poi ci sono stati casi di artisti che sono usciti dalla dimensione nazionale pur non scrivendo in inglese. Guarda i Noir Désir, Le Vent Nous Portera ha avuto un successo incredibile».
Che differenza c’è tra fare musica adesso e farla un decennio fa, in Italia?
«Adesso è più facile perché sei pieno di input e produrre un album è facilissimo, non costa niente. Poi va beh, distribuirlo è un’altra cosa. Però al giorno d’oggi la metà dei ragazzini fa musica, ed è importante perché l’Italia è rimasta un po’ indietro e invece se vogliamo che cresca una cultura musicale allora bisogna che la si pratichi. Certo, è difficile affermarsi, ma lo streaming ha permesso che la musica indipendente trovasse uno spazio anche nelle radio e nelle classifiche che si sono un po’ svuotate da progetti di plastica per riempirsi di progetti interessanti che hanno successo anche perché arrivano dal basso e piacciono a chi la musica la ascolta».