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Il tempo di Monica (Bellucci)

Del passato non ha nostalgie, del futuro nessuna paura: «La belle Bellucci» nella vita ama cambiare tutto, anche gli uomini. Ma le amiche no, perché «l’amicizia è la più alta forma d’amore»
Monica Bellucci e Nicolas Lefevre
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Monica Bellucci e Nicolas Lefevre
Monica Bellucci e Nicolas Lefevre

Questo è un estratto dell’intervista di copertina tratta dal numero 34 di Vanity Fair in edicola fino al 27 agosto 2019

 

Volo di ritorno. Incastrato nel buio tra due corpi ronfanti, appena sotto la Via Lattea, ripenso all’incontro con Monica Bellucci. Mi torna in mente la storia del gatto con il topo. Una gattona di fatale bellezza e un topone in missione con l’obiettivo decisamente ambizioso di stanarla. Metteteli nello stesso ring, suonate il gong e fate partire le lancette del tempo. Botte da orbi, truccate da sorrisi maliardi e sospiri che stenderebbero il nipotino di Al Capone. 109 minuti di corpo a corpo e indovinate chi finisce al tappeto? Avete indovinato.

A proposito di uomini, conigli e toponi incastrati. «Mi disegnano così», dice Jessica Rabbit con il colpo di genio che la scagiona da ogni misfatto di seduzione criminale. Lei, Monica Bellucci, somiglia al disegno che ne ha fatto Milo Manara. Una statua del desiderio oltre che di cera, come si vede nel museo di Parigi. Un’astrazione di carta e matita che, quando si anima e diventa carne, semina il caos. Se poi ti spingi a pensare che, sotto quella magnifica astrazione, esiste e insiste una donna vera, che non è vegana, mangia, beve, onnivora, fa sesso e pipì, sei bello che andato. Una mongolfiera destinazione paradiso. O inferno. Dipende dalle tue attitudini.

Tutto dall’inizio. Una panchina a Montparnasse. Sto lì a meditare sui boulevard di Parigi invasi da gente che sfreccia in monopattino e mi chiedo, complice anche un bio-hamburger che mi sta come un mattone nell’esofago, se il monopattino non sia la soluzione, in quanto sottrazione del corpo e dunque liberazione. Sto lì che m’immagino etereo e svolazzante quando vedo, davanti al portone dove tra cinque minuti mi affaccerò, una bambina che più leggiadra non si può. Volteggia e svolazza, sui pattini in questo caso, inseguita da una probabile tata che, scopriremo poi chiamarsi Marie Julie. Le due giocano e penso che l’affanno della non più giovane tata alle prese con l’inafferrabile ninfa è una struggente testimonianza di come il mondo possa avere ancora una speranza. Léonie, così si chiama, la svolazzante, è di una bellezza incomprensibile. A meno che non sia la figlia più piccola di Monica Bellucci. O la Bellucci stessa, in uno sfasamento temporale scatenato dagli effetti del bio-hamburger.

«Mettiti comodo… Sei venuto davvero a Parigi apposta per me?». Monica Bellucci si fa precedere dalla voce, lungo il corridoio della sua casa a due piani. È la seconda volta che me lo chiede. È la seconda volta che rispondo «sì». L’altra volta, dodici anni fa all’Hotel Costes, il più dark di Parigi, lei nella versione moglie di Dracula secondo Francis Ford Coppola. La ritrovo illesa, la statua iconica di sempre, decisamente meno dark. Quando la vedo, mi viene da cantare l’inno di Mameli. Si è patrioti a volte per i motivi più strani. Stavolta la Nazionale di noi tutti è dentro un abito a fiori. «Molto semplice, di cotone. Me l’ha regalato un uomo e non chiedermi altro, tanto non te lo dico chi è…». Non le chiedo altro, tanto non me lo dice chi è, ma la curiosità mi assedia. Mi gioco il vecchio trucco da repertorio. Di solito funziona. Con Susan Sarandon aveva funzionato. «Fammi un regalo. Dimmi il nome dello spasimante, questa è la mia ultima intervista, poi lascio…». «Non ci casco, sono sicura che è una bugia…».

Ma quello che mi preme davvero sapere è se va anche lei in monopattino sui boulevard di Parigi. «No, scherzi? Mi ammazzerei. Io porto quasi sempre i tacchi, sono una donna di tacchi. Solo se devo andare veloce metto le scarpe da ginnastica». Tra una domanda assurda e l’altra, valigie da fare e da disfare. «…Sono appena arrivata dalla Tunisia dove ho finito di girare un film e parto domani per le vacanze con gli amici e le mie bambine». Un’isola sperduta della Grecia. Allunga le dita affusolate sulla caraffa d’acqua per il gaudio degli assetati: «Il film? Si chiama: L’homme qui avait vendu sa peau, l’uomo che aveva venduto la sua pelle. Storia di un giovane rifugiato siriano la cui vita è stravolta dall’incontro con un artista americano… Mi sono fatta bionda per l’occasione». Bionda come ai tempi di Malèna, la dea muta di Tornatore. Bionda, scura, vampira, dea, lesbica, missionaria, strega, bond girl, donna della porta accanto, Monica è stata qualunque cosa sul set. Maddalena ai piedi della croce con Mel Gibson. E anche puttana. Come in Per sesso o per amore? di Bertrand Blier. «…Sul set giravo scene d’amore e nelle pause allattavo e cambiavo i pannolini. Le puttane a cui ho dato vita al cinema sono sempre sulla via della redenzione, donne che si convertono per amore. Le mie prostitute sono sante».

Un’icona che ha le sue icone. «Claude Lelouch. Ho così amato Un uomo, una donna. Quando ho saputo che avrebbe girato cinquant’anni dopo il sequel, ho voluto esserci in ogni modo. Meravigliosi, Jean-Louis Trintignant e Anouk Aimée. Commovente l’ovazione che gli hanno fatto a Cannes. Vederli sul set, alla loro età, questa luce negli occhi, è la prova che l’anima non invecchia». Sono lì a scodellare il mio pezzo preferito, che l’età anagrafica è un’impostura, quando lei mi fissa e mi fa: «Tu apprezzi il tempo che passa?». Io penso che il tempo sia un assassino. Ci uccide. «Io non mi sento uccisa per niente. Il tempo che passa lo trovo interessante. Sento che dobbiamo scoprire qualcosa, ma non so bene cosa». La ricordavo intrisa di religiosità. «Non direi, vengo da un padre ateo. Intrisa piuttosto di spiritualità. Mi piace l’idea di una forza vitale di cui facciamo parte, che ci appartiene e ci sovrasta. Una legge cosmica che in qualche modo regoli una giustizia universale. Parlare di Dio è troppo. Da umana non mi sento autorizzata a volare così alto».

(…)

Donna fedele «la belle Bellucci», come la chiamano i francesi con una botta di estro immaginifico. «Una brava bestiolina molto pigra», si definisce lei. «L’istinto mi salva. Mi salvano le decisioni che partono dalla pancia. È una cosa che hanno i bambini. Se lo perdiamo siamo morti. Pigra? Più che altro, lenta. Sono un bradipante che mangia le foglioline pianino. Faccio tutto lento». Dice proprio così, «bradipante», la donna che parlerebbe solo delle sue bambine e non parla nemmeno sotto tortura dei suoi uomini. Di quelli del passato, Vincent Cassel, il padre delle figlie, dell’eventuale presente o forse passato anche lui a quanto si dice, Nicolas Lefebvre («Bello sì, ma anche una persona molto carina») e probabile futuro, l’uomo che le regala abiti a fiori. «In amore e in amicizia sono una tomba…». Resta da capire perché, continuando ad amare, si va altrove, a volte si scappa, a volte si cerca altro. «Bisogna abbandonare le cose che ci abbandonano», diceva quel genio di Baltasar Gracian, il filosofo gesuita. «Mi piace, ma non fa per me. Io abbandono quando mi hanno già abbandonata. Magari mi hanno abbandonato ma non lo sanno. Io lo so, loro no. Ci sono persone importanti che dobbiamo tagliare quando ci portano nel buco nero. A volte cerchi di tirarle fuori dall’ombra, ma sono loro che tirano te dentro. E allora devi decidere. Io amo la luce. Nella mia vita ho incontrato uomini molto diversi tra loro, di luce e di ombra. Non ho un mio tipo d’uomo. Per me conta solo il mio sguardo. Quello che leggo, che non posso spiegare. Due anime che si parlano».

Sono lì a chiedermi se Vincent Cassel sia fatto di luce o di ombra, ma lei, donna infernale, intuisce che me lo chiedo. «Sono divorziata da sette anni con lui, un’eternità, e stiamo ancora lì? Mai parlato degli uomini con cui sono stata. Sono cose intime. È una forma di rispetto».

(…)

Eccola, Monica, a 55 anni. Protesa in un una sola direzione. Ritornare bambina, attraverso il prisma delle sue due bambine, Deva e Léonie. Eccola, Deva divina quattordicenne con il suo fidanzatino, così giovane e già si capisce definitivamente perduto al laccio della femmina. «Le mie bambine sono le mie ali. Grazie a loro volo. Non si fermano mai. Assomigliano molto al padre. La madre è più pigra, mediterranea. Hai visto cosa sono? Due vichinghe elegantissime. Parlano italiano. Romanacce entrambe. Ho voluto che nascessero a Roma». Diventata madre quando, di solito, si comincia a pensare che sia troppo tardi per farlo. «Mi sentivo una donna appagata. Poi l’orologio biologico mi ha avvisato che il tempo stava per scadere, adesso o mai più. Guardavo il mio seno allo specchio e mi chiedevo: possibile che serva solo per gonfiare un abito da sera? Il mio grande amico di un tempo, Dado Ruspoli, mi disse un giorno: “Ricordati che i figli sono l’unica realtà”. Aveva ragione». A proposito di fedeltà. Mi fa vedere il cellulare. «Dado è morto da quindici anni ma non l’ho mai cancellato, lo tengo ancora vivo nella mia rubrica…». Il fuoco dell’ispirazione viene da lì, dal bambino che è in noi. Vale per me, per te, per chiunque. Il giorno che perderò questo contatto, sarà il momento che dovrò smettere».

(…)

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