Geografia delle emozioni: C come Cina
Sono stato in Cina per una settimana senza capirci nulla. Ogni volta che avevo l’impressione di giungere a qualche conclusione riguardo alla Cina, succedeva qualcosa che mi destabilizzava completamente. Il primo giorno della mia visita, l’ambasciatore mi ha invitato a pranzo nella sua dimora. Prima che cominciassimo a parlare ha spiegato: tenga in considerazione che la stanza è piena di microspie. All’angolo di ogni via della città stava un poliziotto triste. In cielo, il sole non ha fatto capolino nemmeno una volta in tutta la settimana. Lo smog domina la città come il partito domina il Paese. C’erano costantemente ingorghi. Anche all’una di notte. Ma un taxista improvvisamente si è messo a cantare mentre guidava, con una voce limpida, toccante. La gente giocava a volano al parco. E ballava danze popolari su musica proveniente da stereo portatili. In albergo c’era un bar di lusso, dove sedevano da sole donne cinesi con indosso minigonne cortissime.
Non sono certo che fossero escort. Ma la sola idea che lo fossero m’impediva di avvicinarmi al bar. Però il festival mi aveva offerto un voucher per un massaggio gratuito. Così dopo uno degli eventi ho preso un taxi per l’indirizzo scritto sul voucher. Ho aspettato alcuni minuti poi mi hanno detto di entrare nella stanza numero tre. C’era un lettino di quelli con il buco, dove infilare il mento. Un attimo dopo di me, è entrata la massaggiatrice. E ha cominciato a premermi le scapole con una forza incredibile. Ho alzato un braccio, avvisato che mi faceva male e chiesto di premere un pochino meno forte. Ha risposto «Yes, mister» e ha premuto più forte. Ho anche tenuto una conferenza per un gruppo di studenti. Non avevano idea di chi io fossi. Ho cominciato a parlare di viaggi come ispirazione per la scrittura, e quando ho visto che mi fissavano disinteressati, mi sono interrotto e ho chiesto chi dei presenti aveva varcato i confini della Cina. Uno soltanto, dei duecento ragazzi nell’aula, ha alzato la mano. Allora ho provato da un’altra direzione: di sicuro avrete fratelli maggiori che sono stati fuori dalla Cina. È calato un silenzio di tomba. Il loro insegnante si è chinato verso di me e mi ha sussurrato «Non hanno fratelli».
Dopo la conferenza mi hanno portato, insieme a una scrittrice canadese, alla Muraglia cinese. Eravamo entrambi leggermente sotto shock dopo l’incontro con gli studenti, e per tutto il viaggio non abbiamo scambiato una parola. Una volta arrivati, l’autista ha comunicato che sarebbe tornato a prenderci due ore più tardi. Siamo saliti sulla Muraglia con la funivia. Dall’alto, abbiamo osservato gli spazi aperti, liberi, e in quel momento ha iniziato a nevicare. I fiocchi si posavano sui capelli neri, ricci, dell’autrice canadese. Nel giro di qualche minuto la neve è aumentata, trasformandosi in tormenta, sulla Muraglia non c’era anima viva al di fuori di noi, e non trovavamo la funivia per scendere. I capelli neri della scrittrice canadese erano ormai completamente bianchi. A entrambi è balenato il pensiero che rischiavamo di morire assiderati. Alla fine abbiamo comprato un tè fumante da un’ambulante rugosa che è comparsa da chissà dove e ci ha spiegato a gesti dov’era la funicolare. Il tè sapeva di latte di soia. Siamo scesi e abbiamo trovato l’autista in attesa al parcheggio, immerso in un libro con un drago in copertina. Una volta partiti le ho confidato: sai, sono in Cina da una settimana ormai, e non ci capisco niente. Ed è finita, stanotte torno a casa. Lei ha giocherellato con un ricciolo nero, sovrappensiero, poi ha ribattuto: io sono in Canada da trent’anni e ancora non ho capito. Abbiamo proseguito in silenzio verso la città, in un ingorgo infinito, lei guardava fuori dal suo finestrino, e io dal mio.