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L’intervista ad Ali Smith e gli appuntamenti del Festivaletteratura di Mantova

Alla vigilia del Festivaletteratura, abbiamo incontrato (nella «sua» Ferrara) una delle migliori interpreti dei nostri tempi. Che ci ha parlato di Brexit, Shakespeare e di come siamo fatti della stessa materia di cui è fatto il mondo
La locandina dell'edizione 2019
Ali Smith
Inverno
Margaret Atwood
I testamenti
Colson Whitehead
I ragazzi della Nickel
Valeria Luiselli
Archivio dei bambini perduti
Jonathan Safran Foer
Possiamo salvare il mondo, prima di cena
Wole Soyinka
Ode laica per Chibok e Leah
Abraham Yehoshua
Il tunnel
Manuel Vilas
In tutto c'è stata bellezza
Dave Eggers
La parata
Ian McEwan
Macchine come me

Ali Smith ha un amore italiano. Si chiama Giorgio e per lei, che è una delle maggiori scrittrici britanniche, è tra i più grandi al mondo. «Da dove vengo, i testi stranieri tradotti sono appena il tre per cento, terribile. Negli ultimi anni, però, forse grazie a Elena Ferrante, alla Penguin (casa editrice inglese, ndr) hanno deciso di ripubblicare altri titoli italiani. Tra questi c’era Il romanzo di Ferrara di Giorgio Bassani, che hanno fatto tradurre al poeta Jamie McKendrick. Sono rimasta stupefatta. Meraviglioso. Anche Bassani era poeta, pieno di cuore e anima. Esistono dei posti che sono scossi dalla creatività, pieni di cose buone che arrivano direttamente dalla terra. Uno di questi è Ferrara».

Ed è proprio qui che incontro Ali Smith (57 anni, che il 6 settembre sarà al Festivaletteratura di Mantova assieme ad altri scrittori di culto, guardate i 10 nella gallery) in un’infuocata mattinata estiva per parlare, ironia della sorte, di Inverno (Sur, pagg. 280, 17,50 euro: trad. Federica Aceto), il secondo volume della sua «quadrilogia delle stagioni» (il primo, Autunno, è uscito nel 2018. Primavera arriverà nel 2020). Si tratta di un progetto-mondo nato, e strettamente connesso, all’indomani del referendum che ha visto vincere la Brexit.

Inverno − «Quando sento questa parola non riesco a non pensare a Inverness, che è la città scozzese da cui vengo, come se anche io fossi cresciuta dentro l’inverno» − è la storia di Sophia e Iris, due sorelle molto diverse, di Art, il figlio blogger fallito di Sophia, e di Lux, la sua finta fidanzata, che si ritrovano a trascorrere il Natale in una grande casa di campagna. Si parla anche di climate change, di migranti, di impegno politico. Ali è a Ferrara perché invitata a un convegno di psicologia per parlare di un suo libro del 2016, L’una e l’altra, e la convinco ad andare a vedere la Cappella degli Scrovegni a Padova il giorno dopo.

In L’una e l’altra lei ha sfidato il tradizionale binomio maschio-femmina. Tutti noi abbiamo una parte femminile e una maschile: come è possibile integrarle per diventare esseri umani completi?
«Semplice, ricordando che siamo “molteplici”. È un grande dono questo. La vita è piena di cambiamenti e noi siamo esseri fluidi. Uno prende una farfalla, la inchioda con degli spilli e dice: “Questa è una farfalla”. Ma quella non è una farfalla, è una cosa morta che non può muoversi. Se inchiodiamo noi stessi, perdiamo la nostra capacità di muoverci, di vacillare, di cambiare. Io voglio decidere chi sono in ogni momento, al di là di qualsiasi categoria».

È sempre stata così sicura delle cose in cui crede?
«E lo sono sempre di più. Siamo degli straordinari esseri metamorfici, questo è l’unico modo che abbiamo per sopravvivere. La vita è piena di tragedia, tragedia, tragedia, commedia, tragedia, tragedia, difficoltà, cambiamenti, morte, cambiamento, morte. E se non possiamo cambiare, non potremo mai vivere tutto questo».

Perciò considera Shakespeare, straordinario tessitore di metamorfosi, suo maestro?
«Amo Shakespeare, come lui amava Ovidio e Ariosto. Lui scriveva per loro, io scrivo per lui».

Come è nato Inverno?
«Non so da dove vengono questi libri, perché li scrivo molto velocemente rispetto alle mie abitudini. In passato, mi ci volevano almeno quattro anni per ciascuno. Sono un mistero, mi arrivano da Shakespeare, da Dickens».

 

«Dio era morto: tanto per cominciare». Inverno ha un incipit molto simile a quello del Canto di Natale di Charles Dickens, che è «Marley era morto: tanto per cominciare».
«Un giorno su Google ho digitato “Dio è” e la prima occorrenza è stata “morto”. Ho provato con un sacco di altre cose, e il risultato è che, per Google, il romanticismo, la poesia, la pittura, l’arte, il romanzo, ma anche Twitter e Instagram sono morti, o stanno per morire. Cioè, il primo luogo in cui andiamo a cercare informazioni ci propone una serie di nonsense. Così ho capito che il mio libro avrebbe riguardato la tecnologia».

Che relazione ha con lei?
«Penso sia un bellissimo dono. Nell’Uomo invisibile del 1897, lo scrittore H.G. Wells aveva già immaginato che un giorno avremmo avuto accesso alla conoscenza di tutto il mondo restando seduti in una stanza. Geniale. Penso però che noi uomini dobbiamo decidere come vogliamo usare questa tecnologia, a fin di bene o a fin di male. Il nostro sistema industriale può sì ucciderci tutti, ma anche assicurarci delle vite migliori».

Nel libro accosta parti iper realistiche ed eventi surreali e magici, tipo la «testa parlante» che compare nelle prime pagine.
«La magia è naturalistica. Perché siamo convinti che il mondo non sia meraviglioso?».

Le sorelle Sophia e Iris sono l’opposto: una conservatrice, l’altra progressista. Si odiano, ma si capisce quanto sia indissolubile il legame tra loro. Come si diventa amici del nemico?
«Siamo tutti una famiglia. Lo scrittore irlandese Sebastian Barry disse che la scoperta più importante del secolo scorso è stata il Dna, perché ha provato che non c’è nessun “loro”, ma solo un “noi”. In ogni famiglia si litiga, si discute, ma si resta comunque legati».

Lei dà una bella definizione di amore: «Un autobus a due piani col volante rotto».
«Son contenta che le sia piaciuta. A proposito di autobus, sa che Boris Johnson è riuscito a fare approvare la Brexit scrivendo il falso proprio su un bus? “Alla Ue mandiamo 350 milioni di sterline a settimana, usiamole invece per il Servizio sanitario nazionale”. Era una bugia, i dati erano falsi e, in più, quei soldi non andranno mai al Servizio sanitario (Johnson è sotto processo per avere mentito ai cittadini, ndr)».

Ha mai pensato alla politica attiva?
«Sono una storyteller, e se ciò che scrivo è politico, è perché tutto lo è».

Lei parla di protestare, di manifestare. Pensa che sia di una qualche utilità di questi tempi?
«La protesta in sé è una forma di espressione. Una volta l’artista Martha Rosler, che fece anche parte del collettivo Guerrilla Girls, ha affermato: “Pensate al Vietnam: per dieci anni abbiamo detto di no a quella guerra, e alla fine qualcosa è successo”. All’inizio una stretta di mano tra Reagan e Gorbacev era impensabile. Se non avessimo detto no, che cosa sarebbe successo? Le parole di Saramago: “Come scrittore, credo di non essermi mai separato dalla mia coscienza di cittadino. Ritengo che dove va uno, dovrà andare l’altro”. Le sottoscrivo».

Molti suoi colleghi considerano la scrittura un demone. Anche lei?
«No, perché mi paga il mutuo ed è quello che mi ricorda di togliere gli spilli alla farfalla, quindi è l’esatto contrario del demone: è liberazione. Ci sono poche cose nella vita che fanno sì che il tempo scompaia. Una è l’amore. Un’altra il lavoro, intendo il buon lavoro: quando lavori bene, guardi l’orologio e vedi che sono passate le ore e non sai dove siano finite. Un’altra ancora è leggere. Queste cose cambiano il tempo, lo rendono aperto».

La spaventa il fatto che passi?
«Il filosofo francese Paul Virilio disse: “Nella prossima fase, il potere consisterà nella nostra lentezza, nel prenderci il tempo, nel nostro rifiuto di farci mettere fretta”. È proprio così che il mondo ci raggiunge ora, come uno tsunami, con un rumore assordante e una velocità supersonica. Non è concepibile che ci fermiamo. Abbiamo a malapena il tempo di registrare quello che ci sta succedendo. Ma noi, esattamente come non siamo singoli o divisi, non siamo nemmeno degli schermi bidimensionali. Siamo stratificati, come la terra, abbiamo bisogno di pluridimensionalità».

Una curiosità: perché nel libro parla così tanto di rocce, di pietre?
«Di cosa crede che siamo fatti? Qui a Ferrara ogni singola cosa è composta di mattoni, argilla, acqua, aria, germi. Siamo fatti della stessa identica materia di cui è fatto il mondo, perché pensiamo che il mondo non abbia a che fare con noi? In Inverno c’è un’artista che si occupa di arte e paesaggio, ma tra le due cose non c’è differenza. L’arte è una forma di natura. Noi lo siamo».

La foto di Ali Smith è di Eyevine/Contrasto.

Questo articolo è apparso su Vanity Fair n. 35 in edicola fino al 3 settembre 2019. 

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