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Maurizio Cattelan: «Il mio nuovo progetto? Aprire un orfanotrofio»

L'artista si racconta a Vanity Fair, dal passato da infermiere (e becchino) al sogno di «restituire»
Maurizio Cattelan su Vanity Fair n.39
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«A casa mia non si è mai visto un giornale che non fosse Famiglia Cristiana né un libro. Siamo cresciuti con poco. C’era la tv, perché Carosello e Neil Armstrong che appoggia il piede sul suolo lunare non li ho dimenticati, ma in casa la doccia l’ho vista soltanto a dieci anni. Prima, fatta la lavatrice, mia madre riempiva una tinozza con l’acqua di scarico e ci si infilava tutti dentro. Non c’era l’acqua e non c’era neanche il gas. Facevamo delle gran gite in cantina per prendere il carbone».

Parte dal racconto inedito di un’infanzia povera nella Padova ipercattolica del dopoguerra l’intervista a Maurizio Cattelan – che di solito si concede ai giornali solo via mail – pubblicata dal nostro giornale nel numero in edicola da mercoledì 25 settembre. Dove l’artista italiano più quotato del mondo, che ha recentemente fatto (di nuovo) parlare di sé per il suo water d’oro rubato dalla personale in scena a Londra, incontra in un parco il nostro vicedirettore Malcom Pagani e gli racconta come ha fatto ad arrivare nei musei più importanti del pianeta uno che si era iscritto all’industriale perché aveva la passione di smontare e rimontare radio e televisori recuperati nella spazzatura.

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«I miei sono stati sfortunati. Alla mia nascita, mia madre ebbe un tumore. Poi un’altra malattia e poi ancora un’altra. Mia madre era spesso in ospedale e quando non c’era andava a lavorare per rimpinguare le entrate di mio padre. In una situazione simile, diventare il babysitter delle mie due sorelle era nell’ordine delle cose. Avevo un’urgenza: rendermi economicamente indipendente. Tra seconda e terza superiore mi beccai tre materie e mi dissi: “A settembre tra i banchi non torno, vado alla scuola serale, mi trovo un lavoretto ed esco di casa”. Otto ore di lavoro, cinque di scuola serale in cui imparai il senso della disciplina». Nessuna frequentazione tra gli estremisti che negli Anni 70 a Padova reclutavano giovanissimi: «Qualcuno mi avvicinò anche, ma non funzionò. Da un lato ero troppo indipendente, dall’altro c’era la voglia di rassicurare i miei genitori: mia madre continuava a dirmi “sei una puttana e un brigatista”. Erano entrambe due definizioni sbagliate, ma l’epoca era permeata dalla paranoia, dall’ombra, dal dubbio. Mia madre si era fatta un’idea, mio padre gli era andato dietro e a 16 anni, al campanello di casa, suonarono anche i Carabinieri. Facevo tiro a segno e i militari, sospettosi, vennero a chiedermi i perché di quello strano hobby».

L’antennista (un lavoretto estivo a Venezia) fu solo la prima delle sue tante occupazioni, spiega Cattelan: «Quando da piccolo mi chiedevano cosa volessi fare da grande rispondevo: “Il cameriere”. Uno dei pochi lavori che non ho fatto perché per il resto, dal giardiniere al cuoco alla donna delle pulizie, passando per la divisa da postino e il ruolo di apprendista contabile che andava a pagare le bollette, non mi sono fatto mancare niente. Per lo più erano occupazioni trimestrali. La prima strutturata, sicura, potenzialmente definitiva, fu in ospedale. Prima il corso di infermiere, poi la corsia. Facevo il tappabuchi tra i reparti: 42 ore alla settimana più 4 ore di corso da infermiere. Un po’ di tutto: persino lo spazzino. Con un camice bianco, sempre sporco, svuotavo i bidoni della spazzatura, prendevo un po’ di pioggia sulla testa quando il tempo era inclemente, ogni tanto imprecavo e mi occupavo di tenere pulita una cittadella di tremila persone. A un certo punto mi chiesero se avessi voglia di lavorare in obitorio. Non dissi di no e feci altri sei mesi, quasi da becchino. A un certo punto dissi basta. Psicologicamente ero arrivato. Trovai un medico pietoso che capì il mio stato d’animo, mi trovò un po’ esaurito e mi diede un paio di mesi d’aria. Avevo ancora lo stipendio, ma per la prima volta anche la possibilità di guardarmi finalmente intorno. I miei coetanei si alzavano la mattina, se si alzavano, facevano quel che dovevano fare, se volevano farlo, e dovevano riempire la giornata con niente. “Ma è fantastico” mi dissi: voglio farlo anche io».

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Nacque da quell’impulso, quasi inconsapevolmente, l’avventura da artista. «Al principio il motore fu il solito: pagare un affitto, mettere insieme uno stipendio, sostenersi. Mi stabilii a Forlì, in periferia. Svuotai la casa dalle cianfrusaglie e ne feci il mio laboratorio. Mi piaceva usare le mani e, grazie a un mio amico che aveva un laboratorio, ripresi confidenza con la fiamma ossidrica, con la saldatura, con i materiali. Tutto girava intorno alle mie necessità domestiche: una volta costruivo un tavolo, un’altra una lampada, un’altra ancora una sedia. Prendevo una lastra, la tagliavo, impastavo altri elementi e sperimentavo. Decisi di far sapere cosa stavo facendo e, aiutato dalla mia fidanzata di allora, feci quattro foto, diedi un nome alle opere, scrissi una terribile lettera d’accompagnamento in un inglese che faceva ridere e spedii un migliaio di missive a tutte le gallerie di New York. Era il posto in cui volevo andare, il mio sogno. Risposero in tre. Tutti dall’Italia. Un paio ringraziando e declinando l’offerta e uno solo, da Bologna, proponendomi di partecipare a una mostra collettiva in una galleria, la Neo, che stava riaprendo. Quello fu il primo piede che misi nel mondo dell’arte. Non sapevo neanche cosa fosse. Era una fantasia. Un sogno. Feci un patto con me stesso: “Se tra due anni riesco a sostenermi vado avanti, altrimenti cambio ancora”. Mi spostai a Milano. Bussai a tutte le redazioni. Era il 1989. Qualcuno pubblicò le foto della lampada che avevo costruito, un altro iniziò a venderle. Per un anno dormii nello stesso negozio che la commercializzava, Dilmos, in Brera. Si spegnevano le luci, si tirava giù la serranda e quella per la notte diventava casa mia. Era così grande che ogni notte potevo scegliere di addormentarmi su un letto diverso. Prima di poter acquistare una casa di proprietà in viale Bligny, 16 metri quadrati in tutto, passò del tempo. I primi veri soldi li ho guadagnati a metà del 2000. Prima, pur avendo già una mia quotazione, guadagnavano le case d’asta. Pensavo all’arte. Mettere in piedi i progetti costava e ogni volta in tasca non mi rimaneva un centesimo. Ma non era poi così importante. Nel periodo newyorchese, per esempio, riuscivo a vivere serenamente con 5 dollari al giorno. E quando economicamente ho iniziato a vedere la luce, l’unica cosa veramente cambiata era potersi sedere al ristorante senza preoccuparsi dei prezzi. Prima al ristorante non potevo proprio entrare».

Maurizio Cattelan, Be right back
Maurizio Cattelan, Be right back
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Maurizio Cattelan, Be right back
Maurizio Cattelan, Be right back
Maurizio Cattelan, Be right back
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Maurizio Cattelan, Be right back
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Se si guarda indietro, alla soglia dei 60 anni, Cattelan vede «una persona fortunata che ha avuto molto e spera, in qualche misura, di poter restituire. Se penso a cos’ero e dove sono i miei amici di un tempo lontano mi dico che sono riuscito a fare ciò che mi piaceva. Ogni tanto ripenso al giorno in cui mi licenziai dall’ospedale. All’ufficio del personale si fermarono tutti quanti: sul volto avevano stupore e sgomento. Mi dicevano: “Ma sei matto? È un posto sicuro, pensa ai tuoi genitori. Cosa farai domani?”. Non lo so, lo scopriremo”. A casa fu uno choc. Mio padre, nel 2000, ancora mi consigliava di ripensarci: “Se torni a Padova magari in ospedale ti riprendono”». Su come «restituire», rivela l’artista, un’idea ce l’ha: «Quando ero bambino e tornavo da uno dei consueti periodi in colonia, il mare dei ragazzi che non potevano permettersi un’altra villeggiatura, arrivammo con il pullman al capolinea. Le famiglie degli altri bambini erano lì, di vedetta, ad aspettare i figli. Tutte tranne la mia. L’autista mi vide malinconico, mi domandò se mi ricordassi l’indirizzo di casa e mi riportò all’ovile. Fu un giorno tristissimo e quella solitudine mi è rimasta dentro per tanto tempo. Vicino a casa c’era un orfanotrofio. Passandoci davanti ogni giorno salutavo due coetanei. Un giorno ebbi l’impulso di regalargli la mia collezione di figurine, una montagna di figurine. Ma arrivò la maestra che le sequestrò, riunì tutti i bambini e le divise equamente tra loro. Fu un grande insegnamento. Dopo una vita passata a fare progetti per gli altri, sto pensando di farne finalmente uno mio. Sto pensando di aprire un orfanotrofio».

Foto Pierpaolo Ferrari

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