«Joker»: perché non si può paragonare Joaquin Phoenix a Heath Ledger
Ci sono paragoni che fanno storcere il naso e che non hanno motivo di esistere. È un qualcosa che capita soprattutto ai personaggi che appaiono sullo schermo per più di una volta, con l’ago che pende verso gli attori di prima battuta come se fosse una sorta di automatismo, una legge non scritta ma sempre vera: Audrey Hepburn e Julia Ormond che interpretano Sabrina, Janet Leigh e Anne Heche che prestano il volto a Marlon di Psycho e Grace Kelly e Gwyneth Paltrow che si cimentano con la Margot del Delitto Perfetto. Nel caso di Joker, però, le cose sono un po’ più complesse. Dopo la versione di Jack Nicholson del 1989 sembrava che nessuno avrebbe mai superato quella forza espressiva, almeno fino all’arrivo di Heath Ledger che, per Il cavaliere oscuro, vinse addirittura la statuetta postuma: dopo di lui qualsiasi tentativo di dar vita al clown psicopatico di Gotham sembrava un’impresa impossibile. Ci provò Jared Leto nel 2016, ma il risultato non fu all’altezza delle aspettative. La musica, però, cambia di nuovo grazie all’interpretazione di Joaquin Phoenix che, nel nuovo film di Todd Phillips premiato con il Leone d’Oro alla Mostra del Cinema di Venezia, sembra raggiungere un nuovo livello da eguagliare, una nuova performance a cui guardare con gli occhi grandi e commossi.
https://www.youtube.com/watch?v=o7nkJDjuSp4La verità è che paragonare la versione di Joker di Phoenix con quella Ledger, missione che molte riviste d’oltreoceano si sono già prodigate ad approfondire, è uno sforzo inutile, che parte da un assurto su cui nessuno sembra soffermarsi: il personaggio sarà anche lo stesso, ma ad essere cambiato non è solo il modo di impersonarlo, ma anche le fondamenta della storia che si porta dietro. Se Ledger guardava alla psiche deviata alla Hannibal Lecter, ai tic nervosi che facevano capire che quelle azioni erano completamente incontrollate per via di un disagio più profondo, con Phoenix quel disagio riusciamo a toccarlo con mano perché ci viene mostrato dall’inizio fino alla fine. Nel film, infatti, assistiamo alla genesi del personaggio maturando un livello di empatia che nella versione di Nolan non ci aveva sfiorati neanche per un secondo: sapevamo che Batman era il buono e che Joker era il cattivo e tanto ci bastava per decidere per chi tifare. In Joker le cose sono diverse: con Arthur Fleck, clown fallito che sogna di diventare uno stand-up comedian ma che subisce un’angheria dopo l’altra, un’umiliazione e un reticolato di costole incrinate senza che abbia fatto niente per meritarlo, la faccenda è più complessa.
Il tratto disturbante del film è proprio questo. Solidarizzare con un’omicida o un cattivo in generale è una pratica a cui la tv ci ha addomesticato grazie a prodotti come Dexter e House of Cards, serie grazie alle quali ci chiedevamo spesso quanto fosse giusto tendere la mano al protagonista pur sapendo le cose orribili di cui si sarebbe macchiato. La stessa cosa vale per il Joker di Phoenix, un essere tanto sfaccettato e affascinante che per molti meriterebbe la nomination all’Oscar anche solo per quella camminata disarticolata che sembra lo specchio di quanto il suo cuore sia vuoto e per quella risata che cerca di trattenere in tutti i modi possibili, ma che gli esplode in bocca come un petardo. L’approfondimento psicologico che Nolan aveva accennato diventa nell’opera di Phillips la struttura portante dell’intera narrazione. Si guarda alla danza di Willard in Apocalypse Now, al Rupert Pupkin di Re per una notte: modelli che fino ad oggi non erano stati mai presi in considerazione per la costruzione del personaggio, ma che qui assumono una valenza primaria, come se fossero degli spiriti guida. Il consiglio è, quindi, quello di non cadere nella trappola e di apprezzare tanto Il cavaliere oscuro quanto Joker per quello che sono: due piccoli gioielli che raccontano il medesimo personaggio avvalendosi di due grandi attori.
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