Tahiti: zaino in spalla e fuori rotta
Sono partita sola, zaino in spalla, alla volta della destinazione preferita delle lune di miele, dei VIP e dei resort a cinque stelle. 10 giorni e 10 voli aerei non a caccia di relax, ma di cultura e di qualche storia ancora non scritta. Un viaggio alla rovescia per scoprire che cosa ci sia oltre i paesaggi da cartolina: perché Tahiti c’è di più del paradiso terrestre (e si sa, le brave ragazze vanno in paradiso, le altre dappertutto)
Il viaggio è lungo, e quando dopo 24 ore di volo e una trentina di viaggio atterro finalmente all’aeroporto di Tahiti, sono sfinita. È notte, il caldo soffocante e un’orchestrina saluta i passeggeri con canti, ukulele e percussioni. Accolta con una collana di fiori mi sento proprio una «turista da banane», come chiamavano alla fine dell’Ottocento chi si imbarcava alla ricerca dell’esotismo idilliaco narrato dai diari di viaggio dei primi conquistatori. L’immagine della Polinesia Francese è cambiata negli anni da quella del mito del «buon selvaggio» e delle donne lascive dei dipinti di Gauguin, a quello dei cataloghi dei tour operator di oggi. Ma resta comunque – molto spesso – stereotipata.
La valvola di decompressione
La Polinesia Francese è esattamente dall’altro capo del mondo, e non solo in senso geografico. È uno dei luoghi più remoti del globo, uno degli ultimi ad essere stato colonizzato e il «centro» per questo Paese fatto di 5 arcipelaghi è l’isola di Tahiti, a 5000 km dal continente più vicino.
Atterrati a Papeete non ci si trova però sull’atollo di Robinson Crusoe. Tahiti è montuosa, verdissima e la sua capitale è una città con tutte le sue contraddizioni di una città. I turisti ci restano poco per partire verso paradisi più paradisiaci, i polinesiani ci vedono i tratti peggiori della società occidentale, dal traffico alla confusione alla perdita dei costumi. Non si respira il mana, la forza vitale che secondo la cultura mahoi (alias, polinesiana) governa l’universo, ma in realtà Papeete è tutt’altro che Babele e ha le sue bellezze: un mercato colorato, negozi, una piazza che si popola di foodtruck e persino una nightlife. È interessante ed è la base per partire alla scoperta del resto dell’isola, di foreste tropicali, cascate, parchi naturali, spiagge nere popolate di surfisti e villaggi dove la vita scorre lenta. Papeete è soprattutto la valvola di decompressione necessaria per immergersi lentamente in quello che troverai nel resto della Polinesia.
Il tempo dilatato
Noi diciamo Tahiti, ma Tahiti è solo un’isola delle 118 della Polinesia Francese, sparpagliate su un’area grande quanto l’intera Europa a ore di volo di distanza l’una dall’altra. Si è esattamente a metà strada fra la California e l’Australia, poco sopra l’Equatore, e si è così isolati che tutto arriva via nave, e dalla capitale riparte per le altre isole. Arrivare sino a Papeete è un viaggio lungo, ma il viaggio vero comincia quando si lascia la città e ci si immerge nel vero lifestyle polinesiano.
I turisti vengono in cerca di relax, sole e mare e lo trovano nei grandi alberghi di lusso che sono spuntati come funghi soprattutto nelle isole più battute come Bora Bora o al leggendario The Brando a Tetiaroa (quello dove hanno fatto le vacanze i Ferragnez). Ma è nelle guesthouse, al tavolo degli snack e vivendo al ritmo dei locali che si entra in una nuova dimensione spazio-temporale, completamente dilatata. Le isole solo lontane, ma quando ci arrivi è tutto vicino, concentrato, semplice. Non ci sono mille cose da fare, ci si sveglia presto e alle cinque si aspetta il tramonto. La discoteca è uno stereo su una panchina, il bar una cassa di birre Hinano dell’emporio, il cinema una televisione sotto il porticato. Il sabato si fa un pic-nic, la domenica si va a messa. Il telefono prende male e internet singhiozza. Ti si impone la contemplazione.
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Portare fino a qui qualcosa costa e ci mette così tanto che la scegli bene, e prima di gettarla via vive nove vite come i gatti. Tutto è prezioso e comunque limitato, il consumismo non esiste, e solo ai turisti è concesso il lusso di sprecare. Nei grandi hotel si sopravvive a surgelati o grazie ai rifornimenti dalla Nuova Zelanda, ma basta uscirne per scoprire che si vive «al ritmo della natura», anche se le stagioni praticamente non esistono. La gente vive di pesca, di frutta e di cocco – e pure del cocco che cresce ovunque, non si butta via niente. Fuori dai recinti turistici, si impara ad aspettare, a non poter scegliere e a mangiare quello che porta il pescatore anche se è sempre tonno. Quando c’è meno da comprare, anche il denaro assume un valore relativo e l’unica cosa a cui serve pare sia comprarsi un pick-up.
Fiori e pick-up «zarrissimi»
Pick-up e pit-bull, il binomio perfetto per essere fico in Polinesia (i tatuaggi qui non fanno lo stesso effetto, oramai ce li hanno tutti). La cosa divertente è che sono genuinamente oramai parte della cultura locale quanto i balli in gonnellino di palme e gli stornelli con l’ukulele che invece ci sembrano teatrini per turisti. Ovviamente non vanno più in giro vestiti come tre secoli fa, ma portare fiori nei capelli, disegni sulla pelle o praticare danze, canti e sport antichi è motivo d’orgoglio. Fa tutto parte della riappropriazione della propria identità dopo secoli di oppressione culturale da parte di europei e missionari. La «civilizzazione» qui è riuscita a far piazza pulita di lingue, religione e tradizioni antiche e oggi che possono le vogliono riportare in vita. Non è folklore, ma cultura e la si comincia a masticare sin da bambini in famiglia, con corsi, lezioni e ore di prove. Gli sforzi nazionali sfociano in kermesse annuali di sport, musica e coreografie come l’Heivā i Tahiti a Papeete, la somma del Festival di San Remo, del campionato di calcio e di Amici di Maria de Filippi tutto insieme. È un evento serissimo, dove per accaparrarsi i biglietti pare ci sia la coda che neppure alla Prima della Scala perché si esibiscono gruppi bravissimi ( gli stessi che ti ritrovi a dar spettacolo nei migliori hotel). È una competizione da stadio, «ma nelle altre isole è diverso», mi spiegano. E questa frase è un mantra ricorrente.
La ricerca della felicità
L’isola è uno stato mentale, e l’isolamento è la quintessenza del paradiso terrestre per i polinesiani. Da Papeete scappano a Tahiti Iti o a Moorea, per stare più tranquilli, incolonnandosi in macchina come pendolari, nello sperduto atollo di Rangiroa i local preferiscono abitare dove si arriva solo in barca, «perchè c’è meno gente». Taha è un’isoletta fuori dalle rotte turistiche dove tutti si salutano per strada e dove è difficile immaginare la frenesia della vita quotidiana, ma «per rilassarsi e cancellare lo stress» si rifugiano comunque su un atollo disabitato. Fa sorridere ma è contagioso, infatti ragionano allo stesso modo i tanti francesi che si sono trasferiti qui per aprire una piccola attività familiare, e così la pensano i turisti più affezionati, che si spingono via via in zone sempre più remote. All’inizio ti sembra assurdo ma dopo pochi giorni capisci la vera lezione polinesiana: il paradiso terrestre è qui, ma su un’isola più piccola della tua.
Dove andare, cosa fare e soprattutto, perché, nella gallery. Senza foto d’archivio, solo real life, senza filtro, senza photoshop, dall’obiettivo di un IPhone (il mio).