Marco Aurelio Fontana, questione di stile: «Con la mia bicicletta, ovunque»
È stato il primo italiano a vincere una medaglia olimpica nella storia della mountain bike maschile. Ed è stato anche il primo pilota ad indossare nelle gare di cross country i baggy shorts: il «braghino largo», come lo chiama lui. Bicicletta quindi, ma non solo. Marco Aurelio Fontana ha gareggiato per oltre vent’anni, ha vinto mondiali ed europei – oltre appunto al bronzo di Londra 2012 – poi l’amore per le due ruote lo ha spinto oltre, fuori dalle competizioni agonistiche.
«Sentivo il bisogno di comunicare la bici in maniera diversa», ci ha rivelato il campione lombardo protagonista della puntata finale di «Drive Me Crazy 2», la serie con Irene Saderini prodotta da Red Bull Media House e in programma venerdì 8 gennaio alle 22.15 sul canale Motor Trend (59 del DDT). «Il mio obiettivo era, ed è tutt’ora, portare la bici in tanti posti differenti, in contesti diversi da quelli standard. In altre parole, condividere la mia passione creando contenuti».
Partiamo dal principio, si ricorda la sua prima MTB?
«Certo, una Giant flash 24 pollici: oggi ce l’ha mio papà che è sempre stato un appassionato delle due ruote. Me la regalò lui intorno ai dieci anni, anche se all’epoca giocavo a calcio e facevo karate».
L’amore com’è sbocciato?
«In casa circolavano tanti magazine, io li leggevo e un po’ sognavo. Con questa prima mountain bike, durante le vacanze a Rovegro – un paesino arroccato sul Lago Maggiore – iniziai a salire e scendere per i sentieri, tra sassi e sterrati. Misi in pratica ciò che nella mia testa c’era già».
Il punto di svolta: quando ha capito di cavarsela bene?
«Nel 2005 a Livigno, in occasione del campionato del mondo under-23. Al di là del risultato – arrivai 11esimo – mi resi conto che con allenamenti specifici potevo andare forte anche in salita. Che fino a quel momento era la mia croce: per me era troppo dura, mi piacevano le discese».
Senza paura, immagino.
«La bici, in discesa, è l’oggetto che va più veloce, in alcune gare raggiungi picchi di oltre 60 km/h. I rischi ci sono, ma per fortuna non ho mai avuto infortuni gravi: mi sono lussato le spalle diverse volte, anche poco prima delle Olimpiadi di Londra».
Le portò quasi fortuna: ha un ricordo particolare di quella medaglia?
«L’abbraccio con mio padre: fin da piccolo mi portava alle corse con un van, ne avevamo passate tante insieme. Così mi avvicinai a lui gli dissi “pà, ce l’abbiamo fatta”».
Arrivò in fondo senza sellino, fu una cartolina azzurra di quei Giochi.
«In verità si ruppe il reggi sella: non c’era più neanche il tubo, che forse è anche meglio. Mancava mezzo giro, dopo un’ora e un quarto hai le gambe che ti esplodono e sono stato costretto a restare sui pedali».
Non solo discese, anche sacrifici quindi. No?
«Credo che quell’immagine rappresenti l’esempio di come un atleta olimpico risolva in maniera naturale un ostacolo che sembra insormontabile. Diciamo comunque che nella sfortuna, ho avuto fortuna: se avessi forato o avessi rotto la catena, mi sarei dovuto fermare».
Come le è successo quattro anni dopo, a Rio. Furono lacrime di rabbia?
«In realtà ero soddisfatto perché ancora una volta mi ero fatto trovare pronto all’appuntamento, ho dimostrato di esserci e di poter ambire ad una medaglia. È entrata in gioco la cattiva sorta: ho seguito un altro pilota su una linea di rocce e ho forato».
Durante la sua carriera da agonista, ha mai pensato di dire basta?
«Quando l’ho detto, l’ho fatto. Dopo il mondiale di cross country 2018 mi sono accorto che non avevo più quella velocità che per me era vitale: nonostante fossi ancora un pilota da mondiale, non sentivo più le piante che mi volavano addosso. La fatica non era più accompagnata da un sorriso, quindi stop».
E non ha sentito la mancanza? O la voglia di vendicare la delusione olimpica.
«Le gare non mi sono mai mancate, all’inizio mi sono persino un po’ allontanato. Onestamente, però, quando vedeo gli spot degli atleti in vista dei Giochi, mi scatta qualcosa. D’altronde è una manifestazione che ti dà un’emozione fortissima».
Di cose da fare, comunque, ne ha davvero parecchie.
«Ho lanciato il mio progetto, My Vision, lo avevo in mente già da un po’ di tempo. Un’esperienza davvero sfidante perché da pilota sono diventato content creator, senza uno specifico background. Anche se nel tempo avevo conservato disegni di alcune mie idee».
Un atleta-stilista?
«Lo ammetto, sono un po’ ossessionato dal look. E ho sempre atleti che, a prescindere dal risultato, portavano qualcosa in più del loro gesto sportivo. Uno stile, appunto, riuscivano a trasmettere la passione e la forzo con il loro modo di fare: io, nel mio piccolo, ho introdotto i baggy shorts».
In che senso?
«Nel 2013, dopo un aver assillato il team manager, io e il mio compagno di squadra ci siamo presentati alle gare di cross country con i pantaloncini larghi. Fino a quel momento c’erano soltanto tute aderenti, per l’aerodinamicità. Oggi invece in molti usano il braghino largo».
Nel suo nuovo progetto c’è anche tanta bici elettrica. Si sente la differenza con la bici tradizionale?
«La pedalata assistita (fino ai 25 km/h) ti permette di condividere la passione con amici che hanno un passo diverso, pareggia i livelli. Anche Irene Saderini, nella puntata di Drive Me Crazy, l’ho portata sulla e-bike e si è divertita tantissimo».
Persino lei che è un’appassionata di motori?
«Avevamo in programma un giro su una moto da enduro, poi su una moto d’acqua e infine sull’e-bike. Ero convinto che l’ultima esperienza le sarebbe piaciuta più delle altre: poi la Liguria in bicicletta ti riserva degli scenari mozzafiato».
Durante il lockdown di marzo-aprile, che ha fatto senza bici?
«Ho intensificato la produzione di vlog, ora ne realizzo uno a settimana sempre con spunti diversi. Ho un giardino grande, ogni giorno tiravo fuori una moto o una bici e mi inventavo qualcosa insieme ai miei due figli».
Già pronti ad ereditare la passione?
«Sono felice se non si fissano su una cosa sola e sviluppano più interessi. Quello piccolo (5 anni) va già come un scheggia sulla mini-moto. Con il casco sempre in tinta con guanti e tuta: d’altronde, anche l’attenzione allo stile va tramandata».