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Paolo Cognetti: «La solitudine che ho esaurito»

In attesa di vedere «Le otto montagne», il libro con il quale ha vinto il Premio Strega nel 2017, diventare un film per la regia di Felix van Groeningen, Paolo Cognetti arriva in sala il 7, l'8 e il 9 giugno con «Paolo Cognetti. Sogni di Grande Nord», il documentario diretto da Dario Acocella che racconta il suo viaggio sulle tracce dei suoi scrittori preferiti. Dall'irrequietezza al bisogno di trovare un equilibrio, ecco cosa ci ha raccontato
Paolo Cognetti. Sogni di Grande Nord
Paolo Cognetti. Sogni di Grande Nord
Paolo Cognetti. Sogni di Grande Nord
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Paolo Cognetti. Sogni di Grande Nord
Paolo Cognetti. Sogni di Grande Nord
Paolo Cognetti. Sogni di Grande Nord

La solitudine Paolo Cognetti l’ha indagata e scandagliata così a fondo che, quando si è trattato di andare nel Grande Nord alla ricerca della scintilla che ha acceso i suoi scrittori preferiti, da Carver a Thoreau, ha scelto di non partire da solo, ma in compagnia di un amico fraterno come Nicola Magrin. «Ho conosciuto Nicola ai tempi del Ragazzo selvatico, da allora ci siamo sempre tenuti d’occhio. I suoi disegni li riconosci subito, così, quando dalla casa editrice mi hanno chiesto se avessi qualche idea per la copertina de Le otto montagne, non ho avuto dubbi. Insieme abbiamo fatto un viaggio importante in Nepal, 20 giorni di cammino a oltre 4.000 metri di altezza. Condividere il malessere e la fatica ci ha uniti tantissimo e ci ha portato a continuare» spiega Cognetti al telefono dalla sua baita a Estoul in Val d’Ayas, sopra Brusson, impegnato negli ultimi ritocchi del rifugio ricavato da una vecchia stalla che, con un po’ di fortuna, sarà pronto a metà giugno.

«Mancano i mobili, ma ormai ci siamo. È andata un po’ per le lunghe per i motivi che sappiamo» riprende Cognetti, vincitore del premio Strega nel 2017 proprio per Le otto montagne, ai nastri di partenza per diventare un film diretto da Felix van Groeningen, il regista di Alabama Monroe, con un cast ancora top secret (i nomi di Luca Marinelli e di Louis Garrell che sono circolati sulla stampa Cognetti suggerisce di prenderli con le pinze). Nel frattempo ci sentiamo per un altro film: Paolo Cognetti. Sogni di Grande Nord, il documentario diretto da Dario Acocella prodotto da Samarcanda Film con Feltrinelli Real Cinema e Rai Cinema in arrivo in sala il 7, l’8 e il 9 giugno, un viaggio straordinario nel quale Cognetti e Magrin partono per un’avventura tra le Alpi e l’Alaska sulle orme di Hemingway, Carver, London, Melville e, soprattutto, Chris McCandless, il protagonista di Into the Wild, un film (e una storia) che per Cognetti è stata decisiva e segnante.

Il documentario lo avete girato prima del Covid, giusto?
«Sì, da maggio a giugno 2019, per quattro settimane. All’inizio doveva essere un viaggio americano per i luoghi dei miei scrittori preferiti, ma rischiava di fermarsi solo ai cimiteri e ai musei, e io non lo volevo. Mi interessava cercare lo spirito degli scrittori e il Grande Nord, che è anche detto la Grande Frontiera, mi ha aiutato a farlo».

È partito con Magrin perché, come dice a un certo punto lei, «la solitudine mi ha stancato». 
«Ho fatto tanti viaggi solitari, specie nel mio periodo newyorkese. Se rileggo i miei racconti di quel periodo ritrovo perfettamente quel senso di solitudine. Sono 13 anni che vivo in baita, da quando avevo 30 anni: la solitudine ormai la conosco bene, l’ho esplorata a lungo, e mi sembra di averla anche un po’ esaurita. Sono un novellino nei rapporti di intimità con gli altri, quello sì. La scoperta è stata viaggiare con un amico».

Lei parla proprio di un’«arte» di entrare in comunicazione.
«Così come c’è l’arte di stare da soli. Sono molto timido, stare con gli altri mi imbarazza. Esattamente l’opposto di Nicola, che non solo è a suo agio, ma mette anche gli altri a loro agio. Stare con lui è molto piacevole, anche se nel film si vede esattamente il contrario di quello che succede nella realtà: in genere è lui che parla e io che ascolto».

Quando siete andati in Nepal nel 2017 eravate da soli. Qui c’era una troupe di 6 persone a seguirvi. È stato invasivo?
«Un po’ sì, ma era inevitabile, lo sapevamo. Allo stesso tempo avere tutti i giorni del lavoro da fare è bello. In genere annoto tutto su un diario che scrivo a fine della giornata, qui invece c’erano proprio delle cose da fare. Lavorare aggiunge del senso al viaggio».

I diari li scrive solo durante i viaggi?
«Sì. Quando sono fermo non li scrivo. Mi piace tornare a casa e avere qualcosa per ricordare dove sono andato».

Li rilegge mai?
«Ogni cosa che scrivo diventa qualcos’altro, e sono contento di questo. Mi dà il senso di aver costruito qualcosa».

Quest’anno ha costretto tutti a fermarci. Lei, che ha sempre viaggiato, come l’ha presa?
«Dopo tanti viaggi importanti, non è stato così grave fermarsi un attimo. Durante il primo lockdown, però, ho sofferto di non poter andare in montagna. L’anno dopo aver scritto Le otto montagne ho girato tantissimo per la promozione, arrivando anche in Giappone e in Sud America: stare fermo mi ha aiutato a riapprezzare l’idea che, quando si potrà farlo, si viaggerà con una diversa consapevolezza, con la coscienza di quanto sia prezioso poter partire».

Ho letto che durante il lockdown ha praticato yoga.
«Lo faccio da 2 o 3 anni, mi piace molto. È un viaggio da fermi: l’idea occidentale della felicità è sempre che dobbiamo partire per stare bene. Lo yoga ti insegna a stare bene dove sei. In questo, lo trovo molto utile».

Si reputa una persona irrequieta?
«Se non ho un progetto grandioso tra le mani non sto bene, mi sembra di sprecare la vita. Questa cosa del rifugio ha alimentato questa mia fame di novità che, però, so di dover tenere sotto controllo».

Nel documentario ricorda anche la crisi esistenziale che ebbe a 30 anni e che la portò a lasciare Milano e a cambiare vita.
«Quell’anno sono finite tante cose: un lavoro, una relazione, dei rapporti importanti. Mi sono ritrovato a cominciare da zero: gli amici di adesso non sono gli stessi di allora, per esempio».

Sempre nel documentario dice che ha inseguito il successo per tanto tempo e che quel successo, incredibilmente, è arrivato quando lei si è ritirato in montagna.
«In città scrivevo, pubblicavo, facevo documentari. Nel 2007, però, la crisi economica ha colpito il settore audiovisivo e a tante persone della Scuola di Cinema sono state chiuse le porte. Da lì ho scelto una vita più semplice: in montagna ho lavorato per un paio d’anni nei ristoranti e mi sono messo al lavoro su questo libro che avevo in mente da tanto e che mi ha dato un successo che ho molto desiderato. La cosa, però, è stata anche un colpo grosso al mio equilibrio».

Il famoso effetto boomerang.
«Ho avuto un po’ di ricadute. Quando ti costruisci un equilibrio e si prende una bella botta è difficile ricalibrarsi».

Quindi, a Milano, prima voleva diventare un regista?
«Volevo diventare uno scrittore, non mi era chiaro quale sarebbe stato il percorso scolastico migliore per farlo. Mi ero iscritto a Matematica perché era un mio talento, ma dopo poco mi sono reso conto che non avrei potuto fare le due cose insieme. Poi è arrivata la Scuola di Cinema per imparare una tecnica di narrazione e mi sono appassionato al documentario: per una decina d’anni ho fatto queste due cose, almeno fino a quando la carriera di documentarista si è interrotta e quella di scrittore è proseguita».

Alla luce di questo, quanto è gasato di vedere Le otto montagne al cinema?
«È molto emozionante. Si sta per girare qui da me: ormai conosco bene il regista. Sono coinvolto nel progetto perché ho fatto da consulente. La sceneggiatura l’hanno firmata lui e la sua compagna, che è anche la co-regista, e sono molto contento di questo perché io, probabilmente, avrei preso il romanzo e lo avrei semplicemente trasformato in sceneggiatura. Nonostante sia molto fedele al libro, giustamente si è preso delle libertà e ha sviluppato le cose che gli interessavano di più».

Assisterà alle riprese?
«Magari mi affaccerò ogni tanto. Soprattutto per vedere certe scene che mi stanno a cuore»

«L’Antonia», poesie, lettere e fotografie di Antonia Pozzi raccontate da Paolo Cognetti (Ponte alle Grazie pag. 240, euro 16)

Intanto, però, continua a dedicarsi alla scrittura: è, infatti, in libreria con L’Antonia (Ponte alle Grazie), nel quale analizza le poesie di Antonia Pozzi.
«È un progetto nato per entusiasmo e passione. Da Ponte alle Grazie mi hanno chiesto di curare un’antologia della Pozzi, solo che ce ne sono tantissime. Da lì ho deciso di realizzare una specie di documentario scritto: ho passato tanti mesi a leggerla e poi ho montato tutto inserendo i miei interventi come una voice over. È un vero e proprio documentario con le parole».

Con Antonia Pozzi condivide, tra le altre cose, l’irrequietezza, non crede?
«Milano, la montagna, la scrittura: è un’anima affine, una di quelle scrittrici che leggi e a cui ti senti molto vicino».

Tornando al documentario, parlando della scelta di vita di Chris McCandless, dice che «le più grandi litigate le ho avute con le donne».
«Pensavo di toglierla quella frase perché poteva essere fraintesa, ma poi ho deciso di tenerla per non essere sempre politically correct. Ho più amiche che amici, ma da molte di loro ho sempre sentito delle critiche feroci nei confronti di quel personaggio: “egoista, narciso, irresponsabile”. Forse hanno ragione. È un discorso che riguarda soprattutto le madri, visto che quella di Chris ha sofferto molto per il fatto che il figlio se ne fosse andato per due anni senza mai telefonarle».

Quando raggiunge il bus nel quale Chris è morto, lei libera i finestrini per far entrare la luce. Da dove deriva quell’istinto?
«Una volta entrato dentro mi sono reso conto che era molto sporco e mi è venuta subito voglia di pulirlo, di far entrare l’aria, la luce. C’erano questi teloni stracciati e mi sono messo a strapparli con il coltello che avevo in tasca con grande furia. Volevo pulire».

Ho letto che non le dispiace che il bus sia stato rimosso.
«Vedere il bus trasformato come la capanna di Thoreau mi avrebbe rattristato. In qualche modo l’integrità di quel luogo è rimasta: l’autobus non c’è più, ma nulla vieta di andarci».

Lei non ha i social: di tutte le polemiche che si scatenano ogni giorno cosa pensa?
«Non ne so nulla. Leggo i giornali e i siti culturali che sono i miei riferimenti. Non ho nessun interesse sul chiacchiericcio della gente. Non c’è orgoglio, però, nel starne fuori, è più un istinto di salute».

Lucky, il suo cane, sta bene, invece?
«Quando siamo qui fa una vita pazzesca, è uno dei cani più fortunati del mondo. Non conosce il guinzaglio, corre, si stanca. Adesso ha 9 anni, ma è ancora in formissima, sembra un giovanotto. Soffre di più in inverno quando siamo a Milano, il parchetto, e la pisciatina».

Durante il primo lockdown, però, ha detto che portarlo a spasso a Milano è stata la sua salvezza.
«È vero, due volte al giorno potevamo uscire di casa. A Milano i cani sono aumentati vertiginosamente: ora ce ne sono davvero troppi».

Come sarà la sua estate?
«Non di super-lavoro, e sono contento di questo. Seguirò le riprese del film e l’apertura del rifugio, cercando di godere il più possibile dell’estate che qui dura pochissimo. Poi ci sono tanti piccoli lavori da fare, soffro ad avere solo un lavoro intellettuale: il corpo richiede la sua parte. Cucino, lavoro il legno, curo il giardino: le mani sono degli attrezzi meravigliosi, e mi spiace che questa cosa sia stata mortificata da quest’epoca».

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