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La notizia del declino americano è fortemente esagerata

Alla vigilia del ventennale degli attacchi dell'11 settembre 2001 e dopo il disastroso ritiro dell'esercito americano dall'Afghanistan ci si deve porre alcune domande. Lo fa Massimo Teodori per il «globalista», l'atlante per spiegare il mondo di Vanity Fair

Questo articolo è pubblicato sul numero 37 di Vanity Fair in edicola fino al 14 settembre 2021

A fronte del disastroso ritiro dell’esercito americano (e di altri Paesi Nato) dall’Afghanistan dove fu mandato venti anni or sono per eliminare i terroristi che l’11 settembre 2001 avevano tragicamente violato gli Stati Uniti, ci si deve porre alcune domande sul passato e il futuro dell’America nel mondo: è davvero tramontata la forza che portò gli americani alla guida dell’Occidente prima contro nazisti e comunisti, poi quale scudo verso il terrorismo islamico? Il presidente Biden, oltre alla maldestra modalità del ritiro, è davvero il responsabile del fallimento dell’avventura afghana che ha coinvolto alcuni Paesi della Nato, inclusa l’Italia? Quale sarà la politica estera degli Stati Uniti dopo le controverse prove degli ultimi quattro presidenti, repubblicani e democratici, George W Bush, Barack Obama, Donald Trump e Joe Biden?

Uno sguardo all’indietro ci ricorda che il mondo da tempo non poggia più sull’equilibrio bipolare Usa-Urss come era stato fino al crollo del comunismo nel 1989, e che la successiva illusione di una pace internazionale fondata sulla vittoria della democrazia liberale nella «fine della Storia» (come la chiamò il politologo Francis Fukuyama) non era altro che un abbaglio. L’11 settembre 2001 si capì che era cresciuto un nuovo attore globale senza base statale, senza esercito in divisa e regole militari: il terrorismo islamista. Da quel momento, il sistema internazionale ha perso l’equilibrio fondato sulla gerarchia di alcune superpotenze – due o tre – capaci di esercitare una leadership continentale.

Con la diffusione e miniaturizzazione dell’arma atomica, la Bomba è entrata a far parte dell’armamentario di alcune medie potenze (Pakistan, Corea del Nord e Israele) che sono in via di moltiplicazione in giro per il mondo. Ancor più destabilizzante è, in prospettiva, il pericolo che gli Stati privi di controllo democratico possano fornire il «nucleare sporco» a gruppi terroristici per esercitare un potere ricattatorio. Si sta configurando un mondo caotico e multipolare con un crescente ruolo delle potenze regionali (Turchia nel Mediterraneo, Iran e Pakistan in Medio Oriente e Brasile in America latina) che potrebbero tatticamente allinearsi con la Cina grazie alla sua politica commerciale e finanziaria.

Gli Stati Uniti sono stati incerti sul modo di esercitare la loro leadership economica e militare che, tuttavia, sembra resistere in un mondo profondamente mutato rispetto a quello che avevano preso in mano alla fine della Seconda guerra mondiale. La vicenda afghana ne è l’esempio più recente. Fino alla presidenza di Bush padre (1988-1992) e del democratico Bill Clinton (1992-2000) gli equilibri internazionali erano ancora basati sull’egemonia americana esercitata con le armi, il diritto e l’economia. Con i successivi presidenti, le irrisolutezze in politica estera non hanno fatto altro che indebolire l’immagine degli Stati Uniti presso i popoli del mondo. Il repubblicano George W. Bush affrontava in maniera impacciata l’attacco alle Torri Gemelle e al Pentagono, reagendo erroneamente con la logica delle spedizioni militari in Afghanistan e Iraq, sospinto dai neoconservatori convinti, realmente o falsamente, che fosse possibile «esportare la democrazia» nei due Paesi in cui ritenevano fosse annidato il terrorismo.

Il democratico Obama, dopo avere scovato e ucciso in Pakistan Osama bin Laden, pensava che l’egemonia americana potesse essere affidata al soft power e non alle armi, per cui iniziò il ritiro dei militari innanzitutto dal Medio Oriente e dal Mediterraneo, regioni abbandonate all’espansionismo russo e turco. Il dialogo tentato all’università del Cairo con i cosiddetti «islamici moderati» non ebbe seguito, mentre i combattenti curdi in Siria, alleati dell’Occidente, venivano lasciati alla mercé dei loro oppressori. La presidenza di Donald Trump, al di là degli aspetti folcloristici del personaggio, aveva come asse quell’America First che, in politica interna, sollecitava i lati più oscuri del nazionalismo e del sovranismo populista e, in politica estera, puntava al sostanziale disinteresse degli Stati Uniti quale guida del mondo occidentale. Con l’idea alquanto singolare che sarebbero bastate le sue eccezionali intuizioni per stabilire buoni rapporti con la Russia, accordi nucleari con il dittatore della Corea del Nord e per pacificare i talebani, creava in Afghanistan le premesse per l’attuale disastro.

I negoziati che hanno portato all’accordo di Doha sono partiti dal presupposto infondato che i talebani si sarebbero pacificamente accordati con il governo ufficiale afghano sostenuto dagli Stati Uniti, permettendo così un ordinato ritiro dei marines. Infine, Joe Biden si è trovato a gestire la fuga dall’Afghanistan, programmata e annunziata dai predecessori, forse indotto da approssimativi scenari delle alte sfere militari e dell’intelligence, così tradendo quell’impegno a restaurare il multilateralismo che aveva dichiarato di voler seguire dopo la spinta isolazionista di Trump.

A me pare che l’America che sposta il centro della sua politica estera e delle risorse militari dall’Atlantico al Pacifico, dall’Europa alla Cina, non abbia ancora perso lo scettro di prima potenza. Una cosa è constatare che Washington non sarà più per l’Occidente quel che è stato fino a oggi, e che l’Europa dovrà fare i conti con i propri problemi di sicurezza e di difesa della democrazia liberale contro il populismo autoritario, non più affidati al contribuente americano. Un’altra è ritenere che gli Stati Uniti siano avviati definitivamente al tramonto per il fatto che, dopo settant’anni dall’inizio della Guerra Fredda, i cittadini americani mettono al primo posto i loro problemi domestici piuttosto che quelli internazionali, rifiutando le responsabilità di «gendarme del mondo» che noi europei, di volta in volta, abbiamo invocato o deprecato, mossi da un anti-americanismo di maniera ad andamento carsico. Per qualche tempo ancora, è probabile che resista il primato tecnologico, militare, economico e intellettuale oltre che democratico degli Stati Uniti con cui il mondo dovrà
fare i conti.

Foto sopra: Steve McCurry, Colonne di luce blu lУ dove svettavano le Torri Gemelle: 11 settembre 2002, primo anniversario dell’attacco a New York.

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