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C'è vita oltre Stellantis



Con il disimpegno dell’ex Fiat, «l’indotto» italiano da una parte soffre, dall’altra reagisce. I suoi componenti trovano sbocchi alternativi tra produttori di veicoli con strategie più focalizzate ed evolute. Intanto il governo sta cercando nuovi partner per valorizzare un comparto da 2.100 aziende e 56 miliardi di fatturato.

Dapprima ci ha pensato qualche appassionato, poi i car-designer, quindi alcune officine e quasi un anno fa, ma anche il mese scorso, lo ha ribadito Akio Toyoda, presidente del gigante automobilistico Toyota, un manager da sempre scettico riguardo la corsa verso una conversione troppo rapida del settore n Italia gli «invisibili» sono loro, le 167 mila persone che fabbricano componenti per auto e furgoni e sono più del doppio dei dipendenti di Stellantis. Costruiscono sedili, marmitte, vetri, freni, volanti, cruscotti, carburatori e fanali di ogni tipo, ma non li vede nessuno. Per tutti sono, un po’ sbrigativamente, «l’indotto Fiat». Anche se magari sono stati capaci di riciclarsi più che bene come fornitori di Audi e Volkswagen, case automobilistiche che vendono auto a prezzi ben maggiori di quelle italiane, fabbricandole in Germania e pagando gli operai il doppio. Perché solo in Italia circola periodicamente la comoda storiella della «crisi mondiale dell’auto». Tedeschi e giapponesi, ma anche la Ferrari, dimostrano che costruire automobili belle nei posti giusti e con operai retribuiti in modo corretto è fondamentale per venderle sui mercati più evoluti e con margini più elevati.

Mentre produrre a poco prezzo un’utilitaria in Polonia o in Serbia e poi venderla sui mercati europei più ricchi si è dimostrata una strategia misera, se non perdente. Il governo guidato da Giorgia Meloni, che dall’opposizione nel 2020 si espresse contro la vendita di Fca - Fiat Chrysler Automobiles - ai francesi parlando di «svendita» e «fuga dall’Italia», sta mettendo sul piatto dell’auto una manciata di miliardi e una serie di agevolazioni. A patto che il famoso «indotto Fiat», che andrebbe più correttamente chiamato «automotive», sia salvaguardato. Non a caso, l’esecutivo tratta da settimane sottotraccia per l’insediamento di un secondo grande costruttore internazionale, magari al Sud (si parla della Puglia). E Stellantis, attraverso la famiglia Agnelli-Elkann e i suoi giornali, è impegnata a scongiurare una simile minaccia al proprio monopolio. Un monopolio difeso con i denti ma trascurato nei fatti e che ricorda un po’ quello che hanno combinato i franco-indiani di ArcelorMittal con l’Ilva.

L’automotive italiano è una filiera di qualità invidiabile, costituita da oltre 2.100 aziende che fatturano circa 56 miliardi di euro l’anno. Meriterebbe un’attenzione un po’ maggiore dei pur rispettabili balneari. Fa un po’ notizia, a livello locale, giusto quando ci sono crisi pesanti come quelle della Lear, che fabbrica sedili per auto e dipende dalle commesse Stellantis, o della Delgrosso, che produce filtri. Ma al suo interno ci sono marchi prestigiosi come Brembo, Landi Renzo, Dell’Orto, Marelli, o Sogefi. La narrazione catastrofista sull’«indotto Stellantis che perde colpi», come quella fatalista sui «cinesi che costruiscono a basso costo», oltre che essere largamente imprecisa non coglie un punto politicamente decisivo: l’Italia è l’ottava economia del pianeta e la seconda manifattura d’Europa (dietro alla Germania). Senza l’auto perderebbe un fondamentale baluardo dell’industria pesante, dell’innovazione tecnologica, della difesa e del design.

Con tutto il rispetto per il buon vivere, il cibo sano e l’artigianato di qualità, e nonostante quello che ha predicato per un ventennio una certa sinistra post-operaista e ansiosa di non disturbare il manovratore Fiat, un Paese di 60 milioni di abitanti e una regione come il Piemonte (che ha metà del settore auto) non possono campare solo di slow-food, turismo, cultura e B&B. E questo vale anche a prescindere dalle legittime strategie di investimento della famiglia Agnelli-Elkann, che se n’è andata in Olanda puntando su lusso, moda, settore biomedico e servizi alla persona, mantenendo comunque una quota del 14 per cento di Stellantis, dov’è è il primo azionista. Un azionista che non comanda, ma che incassa i dividendi e fa il lobbista a Roma. Per tutto il resto, ricatti occupazionali compresi, c’è l’amministratore delegato Carlos Tavares, che non vuole un secondo produttore in Italia, esige che la suicida transizione elettrica imposta da Bruxelles sia a carico dei contribuenti e intanto pressa i fornitori italiani a trasferirsi in Marocco, Algeria, Asia e India Il 19 marzo scorso, il manager portoghese è stato chiarissimo. Di fronte alle voci sempre più insistenti sull’arrivo di un concorrente cinese, ha scandito al Sole 24 Ore: «Noi oggi siamo leader del mercato italiano con il 33 per cento, mercato che sarebbe più frammentato», perché «non aumenterebbe in dimensione né in produzione. La battaglia vera sarebbe sui costi». Non solo, ma ha anche avvertito il governo che «un produttore cinese assemblerebbe automobili utilizzando fornitori cinesi. Noi non abbiamo paura della sfida cinese, ma indebolire Stellantis in Italia non aiuterebbe l’Italia».

Nessuno ha osato ricordare a Tavares che proprio lui, lo scorso 26 ottobre, aveva annunciato l’ingresso della multinazionale di cui è a capo nel capitale della cinese Leapmotor e la creazione di una joint venture «con i diritti esclusivi per l’esportazione e la vendita, nonché la fabbricazione dei prodotti Leapmotor al di fuori della regione cinese». Insomma, con la Commissione Ue che indaga per dumping sulle case cinesi e minaccia di bloccare l’invasione delle sue auto elettriche, l’Italia e Stellantis potrebbero diventare il cavallo di Troia di una Pechino sotto sanzioni. Detta crudemente, nell’auto il cinese è buono se lo portano Tavares e John Elkann, ma è cattivo se lo trovano Urso e la Meloni. Unite i puntini delle recenti prese di posizione a favore di Pechino e Parigi da parte di un signore ancora influente come Romano Prodi (sì, colui che nel 1986 vendette l’Alfa Romeo alla Fiat anziché alla Ford) e il quadro è ancora più folle. Stellantis ha chiuso il 2023 con utili netti per 18,6 miliardi (+11 per cento sul 2022) e un fatturato in crescita a 189,5 miliardi (+6 per cento). Ha venduto 6,16 milioni fra auto e veicoli commerciali (+6,6 per cento), con le vetture elettriche in aumento del 21 per cento. E quest’anno distribuirà 4,8 miliardi di dividendi (in aumento del 16 per cento sul 2023) portando a quota 23 miliardi il totale degli utili distribuiti ai soci dal 2021, anno della fondazione di Stellantis. Mentre alla Borsa di Amsterdam, solo nell’ultimo anno, il titolo ha messo a segno un balzo del 69 per cento.

Insomma, anche se negli stabilimenti italiani siamo al quindicesimo anno consecutivo di cassa integrazione, per gli Agnelli-Elkann e i loro soci le cose non vanno affatto male. Ma come ha notato il Corriere della Sera, nel 2022 il rapporto tra investimenti in ricerca e sviluppo e ricavi di Stellantis è stato solo del 2,9 per cento, contro il 6,3 per cento di General Motors, il 5,7 per cento di Mercedes, il 5,1 per cento di Volkswagen e il 4,6 per cento di Renault. Forse qualche dividendo in meno non avrebbe stonato, specie quando si chiedono incentivi di Stato. In Italia si sono vendute 1.560.000 vetture nel 2023 (fonte: Anfia), con un aumento del 19 per cento sul 2022, ma rispetto al 2019 siamo sempre sotto del 18,3 per cento. Stellantis ne produce meno di un terzo e questo è un gran problema per l’economia nazionale. La sottoutilizzazione cronica degli ex stabilimenti Fiat colpisce i fornitori, sotto pressione anche per la frenata tedesca.

La mancata assegnazione di nuovi modelli da parte di Stellantis, solo nel Torinese ha portato alla scomparsa di 35 mila posti di lavoro, secondo i calcoli sindacali di Fiom-Cgil. Al ministero del Made in Italy si sono fatti i conti e hanno concluso che per sostenere non solo l’occupazione in Stellantis (80 mila persone) ma tutto l’automotive italiano, serve che i francesi producano nella Penisola 1,3 milioni di auto e furgoni l’anno. E il 12 marzo scorso, il ministro Urso è stato chiarissimo con Stellantis: «Se nei prossimi anni non dovessimo registrare un contributo significativo nella produzione delle auto, le risorse destinate agli incentivi finora, pari a 5,3 miliardi di euro, sarebbero destinate a sostenere l’automotive». Già, la novità è che la filiera italiana dell’auto non è più il cortile di casa Fiat e le pressioni di Stellantis sui fornitori perché delocalizzino anche loro in Marocco, India e Asia, hanno imbastardito la partita degli incentivi per la transizione green. Secondo i costruttori dell’Anfia, la quota di fatturato medio dell’automotive italiano generata dalle vendite a Stellantis e Iveco è scesa dal 40,7 per cento del 2021 al 35,5 per cento del 2023. In parallelo, nello stesso periodo è cresciuta dal 59,3 per cento al 64,5 per cento la dipendenza da commesse straniere, che spaziano dalla Germania alla Francia (non Stellantis) e toccano anche costruttori statunitensi, giapponesi e cinesi. Insomma, queste cifre dicono che continuare a venerare e/o temere una cattedrale mezza vuota, come è l’ex Fiat, non è lungimirante e neppure lo è diventare un Paese di semplici produttori in conto terzi. In Italia esiste lo spazio per una seconda casa automobilistica e le competenze industriali ci sono tutte. Da sempre.

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